PICCOLI GRANDI LIBRI  UN MONDO DI GRAZIA
Letture dal midrash sui Salmi Midrash Tehillim

Introduzione, traduzione e note
a cura di Alberto Mello, monaco di Bose

EDIZIONI QIQAJON 1995
COMUNITÀ DI BOSE

L'uomo non sta in piedi
né per la sua ricchezza, 
né per la sua sapienza, né per la sua forza.
Che cosa dunque lo fa stare in piedi?
La sua preghiera.

Midrash
Tehillim
142,1
INTRODUZIONE
1. Un mondo di grazia
2. Il midrash sui Salmi
3. Procedimenti ermeneutici
a) Una parola significa più cose
b) Due parole non significano la stessa cosa
4. David, l'uomo dei salmi
5. Il Dio che ascolta la preghiera
6. Grazia e redenzione
7. Quarantanove porte
LIBRO I LIBRO II LIBRO III LIBRO IV LIBRO V
1. Beato l'uomo
2. La generazione del Messia
3. Al vincitore con arpe
4. L'errore di David
5. Ciò che manca agli angeli
6. Il Signore prova il giusto
7. Una salvezza crescente
8. I due bastoni
9. Di David, salmo
10. Affidare l'anima
11. Giudicami, Signore
12. Luce nella luce
13. Ma senza collera
14. Speranza dopo speranza
15. Beato chi ha cura del debole
16. Lodabile molto
17. "El, Elohim, JHWH"
18. Secondo la tua grazia
19. Pietà di me, o Dio, pietà di me
20. Tua è la grazia
21. Nel deserto di Giuda
22. Tu che ascolti la preghiera
23. Il servizio di Dio
24. Anche per i ribelli
25. Con tutto il corpo

 

 

26. Buono verso Israele
27. Ricordo di Dio
28. Amore per la terra
29. "Chasidut"
30. Un mondo di grazia

 

 

 

 

31. Preghiera di Mosè
32. I tre canti
33. Il regno dei cieli
34. In un modo o nell'altro
35. Cinque mondi
36. I peccatori cesseranno
37. Lui solo sa

 

 

 

38. Non più servi del faraone
39. Amore e ascolto
40. Grazia per sempre
41. Le porte della giustizia
42. Stupore
43. Semplici come una colomba
44. Cantico delle salite
45. La città unita a se stessa
46. Su una colonna sola
47. La mia destra si dimentichi
48. Il Signore ama i giusti
49. Un canto nuovo

 

INTRODUZIONE

1. Un mondo di grazia

Il Salterio è stato giustamente definito un "microcosmo": letterario, teologico, poetico, liturgico, simbolico, e altro ancora (1). Ma la definizione più esatta, più pregnante, dovrebbe essere: un "microcosmo di grazia". "Grazia", in ebraico chesed, è infatti la parola-chiave del libro dei Salmi. Delle 245 attestazioni complessive del termine, nella Bibbia ebraica, più della metà (127) si registrano nel Salterio. Se ci volgiamo poi al derivato chasid ("grazioso", "benevolo", ma io traduco anche "santo") le ricorrenze salmiche sono addirittura 25 su 32. Perciò, per tentare di delineare una teologia dei Salmi, sarebbe sufficiente mettere a fuoco questo concetto basilare, perché è quello che meglio di ogni altro esprime e riassume il rapporto uomo-Dio nel Salterio.
Questo rapporto si fonda appunto sulla "grazia" o benevolenza divina nei confronti degli uomini. Come altri importanti termini ebraici a forte connota zio ne teologica, neppure chesed è di facile traduzione. lo rimango ancorato all'equivalenza tradizionale (il latino gratia), benché i moderni preferiscano magari altre soluzioni, e il Dizionario Teologico dell'Antico Testamento curato da Jenni e Westermann proponga, ad esempio, "bontà". Più importante che stabilire equivalenze, tutte più o meno inadeguate, è cercare di afferrare il concetto, quale emerge dall'uso del termine nei vari contesti.
Kathleen Sakenfeld, una studiosa americana che ha dedicato a questo termine un'intera monografia (2), arriva grosso modo alle seguenti conclusioni (che riassumo): la chesed è un atto a favore di qualcuno da parte di un altro che ha un' autorità superiore, il quale può avere una responsabilità morale per compiere tale atto, ma non una responsabilità legale, sicché rimane pur sempre libero di non compierlo.
Va sottolineata la clausola "non una responsabilità legale", perché la Sakenfeld dimostra che il termine chesed non si applica esclusivamente a
rapporti giuridici, comportanti diritti e doveri reciproci, come quelli tra marito e moglie, genitori e figli, sovrano e sudditi: è chesed qualunque gesto di benevolenza da parte di chi è in grado di fare un favore a un altro che si trova nel bisogno.
È chesed, per esempio, la benevolenza reciproca, sigillata da un patto, che si usano Gionata e David: dapprima Gionata usa clemenza verso David, aiutandolo a sfuggire la morte, e poi David
promette" grazia" alla casa di Gionata, una volta che avrà conseguito il regno (cf. 1Sam 20,8-16). La benevolenza è usata, reciprocamente e alternativamente, da chi si trova in situazione di forza: perciò è un "patto", ma un patto amichevole, non un vincolo necessario, un legame di tipo giuridico. Vi è dunque responsabilità morale, e non legale: proprio questo tipo di responsabilità morale è la chesed. Altrove, David dice: "Voglio usare (lett.: 'fare') benevolenza a Chanun figlio di Nachash, come suo padre ha usato (lett.: 'fatto') benevolenza con me" (2Sam 10,2). Vuol dire che gli restituisce un favore, a cui però non è obbligato: in termini strettamente giuridici, egli potrebbe benissimo esimersi dal farlo.
Avendo già citato per due volte David, è il caso di aggiungere che, all'infuori del Salterio, il
luogo in cui ricorre più spesso il termine chesed è precisamente la sua storia, narrata nei due libri di Samuele. Si direbbe che la chesed sia proprio l'invenzione di David, e che egli si possa definire un genio della grazia. Nel corso della sua vicenda umana, vissuta a lungo in condizioni di inferiorità, egli l'ha anzitutto sperimentata dagli altri e da Dio. Divenuto re, l'ha usata verso gli altri con la stessa divina prodigalità.
Questa divina prodigalità, questa graziosa generosità, si riflette in tutto il Salterio davidico. Ogni volta che David si rivolge a Dio fa sempre appello, implicitamente, ma spesso anche esplicitamente, alla sua grazia: "Pietà di me, o Dio, secondo la tua grazia" (Sal 51,3). Il midrash fa l'esempio di un malato che va' dal medico senza avere i soldi per pagargli la prestazione: può solo fare appello alla sua benevolenza, alla sua "responsabilità morale" (nr. 18).
Un altro salmo afferma: "Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: a Dio appartiene la forza e tua, Signore, è la grazia" (Sal 62, 12). Il midrash che riporto su questo versetto si sofferma soprattutto nel dire che il Santo, sia benedetto, non usa il metro degli uomini per giudicare (nr. 20). Ma un altro midrash sullo stesso passo, ancora più noto e importante (sfortunatamente assente però dalla raccolta cui mi sono rigorosamente attenuto, cioè il Midrash Tehillim) sostiene che "forza" e "grazia" sono una sola cosa in Dio: diventano due solamente per noi, cioè secondo il nostro metro umano, le nostre scale di valori che esaltano la forza e deprimono la grazia.
La grazia, o "gratuità", come atteggiamento esistenziale, viene chiamata, con parola post-biblica, chasidut: è il modo di essere dei chasidim. Ho già dichiarato la mia preferenza per "santo", quando devo tradurre chasid, perché trovo insoddisfacenti le rese correnti con "pio" o "devoto", ma talora uso anche "benevolo", nel senso attivo di "caritatevole", cioè qualcuno che usa grazia, che fa misericordia (nr. 29). Così è colui che ha cura del debole, secondo le parole del Sal 41 (nr. 15). E il midrash sul Sal 118,20 ("Questa è la porta del Signore: per essa entrino i giusti") ricorda singolarmente la scena del giudizio finale descritta da Matteo: nel regno sono ammessi solamente coloro che avranno fatto grazia agli affamati, agli assetati, agli ignudi (nr. 41).
Si edifica così, attraverso le pagine dei Salmi, con materiale prezioso, perla dopo perla, quello che possiamo veramente definire un "mondo di grazia". L'espressione deriva alla lettera dal Sal 89,3 secondo il testo masoretico, che su questo punto si discosta sensibilmente da qualsiasi versione, antica o moderna. E molto probabile, a dire il vero, che il testo ebraico di questo salmo sia in cattivo stato: per il solo v. 3, l'edizione stuttgartense propone non meno di sei correzioni. Resta, comunque, che il testo ebraico è leggibile anche così com'è, e soprattutto dà un senso estremamente suggestivo: "Giacché ho detto: un mondo di grazia sarà edificato" .
Solitamente si interpreta qualcosa come: "la mia grazia sarà edificata per sempre", ma ciò suppone tutta una serie di correzioni, e soprattutto l'inversione chesed 'olam, "grazia per sempre", in luogo di 'olam chesed, "mondo di grazia". Va notato, infatti, che il termine 'olam ha sia il valore temporale di "eternità", sia quello spaziale di "mondo" (comunissimo in ebraico rabbinico, ma forse reperibile anche in quello biblico), e il midrash gioca costantemente su questa ambivalenza semantica. Un'espressione tipica del Salterio: hodu la-Adonaj ki tov ki le-'olam chasdo, può essere interpretata: "Rendete grazie al Signore perché è buono, perchéeterna è la sua misericordia"; ma anche: "perché la sua grazia è per il mondo" (da vari esempi, alcuni dei quali inclusi nella presente antologia, mi sembra che sia proprio quest'ultimo il sensus locutionis nel
Midrash Tehillim).
Si tratta davvero, dunque, di edificare un "mondo di grazia", vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione nella grazia: tale almeno è il progetto divino (ki amarti: "Giacché ho detto" oppure "ho pensato"). Secondo il comune insegnamento rabbinico, il primo mondo è stato creato attraverso una miscela di giustizia e di misericordia, avendo Dio capito fin dal principio che, se avesse impiegato solo la giustizia, avrebbe dovuto distruggerlo subito dopo. Ma il nuovo mondo sarà un mondo di grazia. Che cosa significa? Il salmo prosegue dicendo: "Nei cieli hai stabilito la tua fedeltà". E a tutti noi suona familiare (non fosse altro che dal prologo di Giovanni) 1'endiadi biblica "grazia e fedeltà" (chesed wa-emet), ovverosia "grazia fedele". La prima creazione era fondata su "giustizia e misericordia", la nuova creazione su "grazia e fedeltà", cioè sulla grazia fedele di Dio, come fedeli sono state le grazie che egli ha accordato a David (Is 55,3). Accanto a questa, si può fare anche un' altra osservazione: essendovi una cosi precisa corrispondenza tra grazia e fedeltà, ed essendo quest'ultima stabilita nei cieli (cioè una prerogativa divina), vuol dire che un "mondo di grazia" sarà appunto conforme alla "grazia fedele" che ha luogo nei cieli.
Con la grazia tutta rabbinica di dire cose grandi in parole povere, il midrash paragona il trono della gloria (stabilito, secondo Is 16,5, sulla grazia e sulla fedeltà) a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale è la grazia: sassolino, realtà infinitesima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Sassolino dopo sassolino, ogni chasid apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia.
Ma non si deve parlare soltanto di un 'olam chesed, si può, anzi si deve parlare anche di una chesed 'olam, di una grazia che rimane "per sempre". Se è vero che la chesed divina è gratuita, non motivata giuridicamente, ma frutto di un atto puramente benevolo, è altrettanto vero che essa è "fedele", cioè duratura. Non è "da sempre", poiché essa trova inizio in un gesto, in
un dono gratuito, in una libera chiamata; ma una volta compiuto quest'atto iniziale, essa rimane "per sempre" e non è più cancellabile neppure dal peccato, neppure dalle sue contraddizioni umane. E proprio questo il senso da dare alle "grazie fedeli" di David, che sono tali da estendersi anche ai suoi figli dopo di lui (vedi 2Sam 7, vedi Sal 89), mentre in Saul, che pure aveva ricevuto l'unzione come David, la grazia del regno non è stata "fedele", non è stata cioè permanente.
"Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la sua grazia è per sempre" è il ritornello forse più comune di tutto il Salterio. Il midrash non fa che esplicitare, molto semplicemente, la portata di questo versetto: "Che cosa significa che 'la sua grazia è per sempre'? Che il Santo, benedetto sia, non fa grazia a Israele per un anno o due, ma per sempre". Estensione nel senso della durata, ma anche in senso quantitativo: le grazie che il Signore ha riservato a Israele sono infatti senza limite (nr. 40).
Come afferma, tra gli altri, il Sal 106,2, le grazie del Signore sono inenarrabili o innumerevoli (qui c'è un gioco di parole sul verbo le-sapper, che può significare entrambe le cose). Innumerevoli non in senso piattamente aritmetico, come se noi fossimo solo incapaci di tenerne il conto. Ma innumerevoli soprattutto perché noi non siamo neppure capaci di individuarle, di realizzare che esse si stanno producendo in nostro favore, di rendercene conto. Il versetto 4
del grande hallel (Sal 136): "A colui che opera grandi prodigi da solo, perché la sua grazia è per sempre", viene perciò ricondotto a questo senso: "lui solo sa" quanti sono i prodigi che opera per noi. Noi il più delle volte semplicemente li ignoriamo (nr. 37).
Grazia di Dio per sempre, e grazia di Dio per
tutti. Certo il Signore è buono anzitutto "verso Israele", ciò che midrashicamente però vuole dire "verso i puri di cuore" (nr. 26). La sua grazia non è ingiusta, rimane fedele alle sue scelte. Cionondimeno, essa si riversa su tutti gli uomini che si prestano a riceverla, anche - come afferma il Sal 68,19 - "sui ribelli". Questo difficile versetto è traducibile, grosso modo, cosi:

Salito in alto hai catturato prigionieri,
hai preso doni per gli uomini e anche per i ribelli 
perché in essi dimori il Signore Dio.

Il midrash lo applica al dono della Torà, a Mosè che sale sul monte, che prende doni - appunto il dono della Torà - destinati agli uomini. Ma non solo agli uomini pii e giusti: "anche per i ribelli". Anche i ribelli possono essere resi giusti, se accolgono il dono di Dio, il quale è fatto proprio per questo: "perché in essi dimori il Signore Dio" (nr. 24).
Parafrasando un noto theologumenon rabbinico, richiamato in questa stessa raccolta (nr. 31),
potremmo forse concludere dicendo che "la grazia è il luogo del mondo, e non il mondo il luogo della grazia". Entrambe le affermazioni, di per se stesse, sono vere, ma la seconda viene paradossalmente negata solo per far risaltare la prima come ancora più vera, come una verità ancora più profonda. E vero che il mondo nel quale viviamo è dimora, ricettacolo della grazia divina. Ma è ancora più vero che questa stessa grazia divina è il luogo dove consiste, dove si fonda, dove riposa il nostro mondo. Se noi affermassimo soltanto che "il mondo è il luogo della grazia", noi metteremmo ancora al centro il mondo, cioè in fondo noi stessi, con le nostre capacità di accoglienza del dono della grazia. Conviene dire, piuttosto, che "la grazia è il luogo del mondo": la grazia di Dio è ciò che ci fa sussistere, ciò che ci previene sempre, ciò che, in definitiva, suscita in noi la stessa capacità di accoglierla e di aderirvi cordialmente, liberamente. Non è il mondo che pone in atto la grazia, ma è la grazia che pone in atto il mondo: perciò possiamo parlare di un "mondo di grazia".

2. Il midrash sui Salmi

Il midrash sui Salmi, in ebraico Midrash Tehillim (d'ora in poi abbreviato in MT), da cui abbiamo tratto gli esempi di lettura presentati in questa raccolta, tutto è fuorché un' opera omogenea. Occorre anzi dire che si tratta di un' opera testualmente incertissima. Un dottorando presso l'Università ebraica di Gerusalemme ha in progetto un'edizione critica del testo di cui si avrebbe un gran bisogno: il primo volume, che coprirebbe i primi cinquanta salmi, sembra essere in fase avanzata di preparazione, ma mentre scrivo non è stato ancora pubblicato.
Ho dovuto servirmi, in mancanza di meglio, dell' edizione di Salomon Buber (il nonno di Martin) che ha già più di cento anni (Vilna 1891) ed è stata condotta secondo criteri £ilologici che oggi sono per lo meno antiquati. In questa edizione sono presentati commenti o omelie su tutti i 150 capitoli del Salterio eccetto uno, il Sal 115. Ma gli otto manoscritti che Buber ha usato per la sua edizione (di fatto tutti i principali manoscritti superstiti) e anche la prima edizione a stampa del MT (Costantinopoli 1512) coprono solamente i salmi da 1 a 118 (con quattro lacune: Sal 96-98 e 115). Vuol dire che per tutti i salmi esclusi, particolarmente quelli dal 119 in poi, noi non possediamo una tradizione manoscritta affidabile.
Ma l'autore della seconda edizione (Salonicco
1515), dichiara di basarsi su un manoscritto del MT, oggi perduto, per i Sal 119-121 e 138-150 e sullo Jalqut (una collezione tardiva) per la maggior parte dei restanti Sal 122-13 7. Le successive edizioni, da quella di Venezia del 1546 fino a quella di Varsavia del 1865 (a cura di Aron Mosè Padua) ricalcano più o meno lo stesso schema. Che cosa ha fatto Buber? Si è dato premura di riempire tutti i buchi ancora rimanenti con 1'aiuto delle fonti miscellanee più disparate: la Pesiqta Rabbati, il Midrash Rabbà, il Talmud babilonese. E in questo modo egli ha proceduto non soltanto là dove gli mancava il commento di un salmo nelle edizioni precedenti: in realtà egli è intervenuto spesso a completare il testo con fonti eterogenee anche là dove questo era esistente. Ciò fa sl che la sua edizione (per il testo e per le note) sia di gran lunga più completa di quelle precedenti, ma - per lo stesso motivo - anche quella meno sicura.
Una volta ammesse queste incertezze - per le quali, a dire il vero, non sappiamo di preciso fin dove arrivi il testo del MT - onde calmare eccessive inquietudini erudite, occorre subito chiarire che il MT non va in ogni caso considerata 1'opera letteraria di un singolo autore, ma un' opera tradizionale. Ciò può dirsi vero di ogni opera rabbinica (nel senso, per lo meno, che ognuna di esse suppone una complessa trasmissione orale, prima della sua redazione scritta), ma è tanto più vero nel caso di opere che si presentano come "raccolte" (jalqutim) di materiale tradizionale già presente in altre fonti e adesso semplicemente riordinato secondo nuovi criteri. Appunto a questo genere appartiene il MT.
Considerate le cose in questa prospettiva, anche la disinvoltura filologica di Buber appare, almeno a me, non scandalosa più di tanto: in pratica, essa non fa che proseguire lo stesso metodo di raccolta, ordinamento e completamento del materiale tradizionale.
Il MT si presenta, dunque, come una raccolta (relativamente tardiva) di omelie e commenti rabbinici sui Salmi. Come di consueto - giacché è sempre d'obbligo citare una parola in nome di chi l'ha detta - queste brevi omelie o commenti hanno un autore: il Rabbi Tal dei Tali ha detto. In questo senso, i veri "autori" del MT sono i Rabbini che vi sono citati per nome: e sono tutti maestri del periodo mishnico o talmudico, prevalentemente di ambito palestinese. "Nessuna autorità del periodo post-talmudico viene citata per nome" (3). Sicché, per quanto tardiva si possa determinare la data di composizione della raccolta nel suo insieme o nelle sue singole parti, 1'atmosfera generale che vi si respira è quella del periodo talmudico, e la "teologia" (se si può parlare, con Schechter, di una "teologia" ebraica) rappresentata dal MT è in tutto e per tutto quella della grande tradizione rabbinica.
Da ciò non consegue, naturalmente, che questa raccolta di detti rabbinici sui Salmi sia contemporanea ai loro autori, e tanto meno che essa corrisponda alla aggadà de- Tillim menzionata da alcune fonti in riferimento a R. Chijja, un contemporaneo di R. J ehudà il presidente (m secolo). Costui sarebbe stato talmente assorto nella lettura di tale opera da non salutare il figlio di R. Jehudà, R. Shimcon. A sua giustificazione, avrebbe poi dichiarato: "Avevo i miei occhi fissi nella aggadà de-Tillim" (jKetubbot 12,3; 35a). Il riferimento è talmente scarno e isolato che è impossibile costruirci sopra qualcosa: evidentemente doveva trattarsi di un' opera scritta, ma era un commento ai Salmi? E se sl, era un commento su tutti i salmi o solo su alcuni? Comunque va notato che nel Sefer 'Arukh, un dizionario talmudico compilato da Natan di Roma nell'XI secolo, il modo più comune per citare la nostra opera è proprio Aggadà de-Tillim o Aggadat Tehillim. Ma proprio in questo stesso dizionario si trova per la prima volta il nome Midrash Tehillim usato ancora oggi, insieme a quello di Shocher Tov ("Chi è sollecito nel bene"), dalle prime parole del testo, tratte da Pr 11,27.
Il fatto è che, in epoca talmudica, dovevano esistere e circolare varie omelie sui salmi. E probabile che i Rabbini non dessero omelie direttamente sul testo dei Salmi o degli altri Ketuvim. Al centro dell' omelia sabbatica stava normalmente il brano della Torà (la parashà) o, eventualmente, l'aftarà, un passo profetico scelto piùo meno in corrispondenza col precedente. Ma lo stile proprio dell' omelia rabbinica consiste nel tessere legami non ovvi, non apparenti, tra un testo e l'altro, tra il testo "vicino" che si legge e un altro testo "lontano", scelto del tutto arbitrariamente.
Molto spesso, anzi di preferenza, poteva accadere che l'omelia sulla parashà settimanale si aprisse proprio con un versetto dei Salmi o degli altri Scritti sapienziali. Per meglio dire: il testo dei Salmi "apriva" quello della Torà. L'''apertura'' (petichà), nell'omelia rabbinica, non è semplicemente l'inizio, l'esordio dell'omelia, ma questa abitudine di illuminare un testo con un altro, un testo povero con un testo ricco, o anche viceversa, fino talora a inanellare tutta una serie di testi, a farne una collana (charizà), passando dalla Torà ai Profeti agli Scritti.
L'impressione mia (dico impressione, perché non sarei in grado di provarla con i dovuti argomenti) è che il raccoglitore del MT abbia seguito la via inversa: abbia, cioè, ordinato il materiale omiletico che trovava nella tradizione non a partire dalla Torà, come doveva avvenire" dal vivo", ma dai testi salmici utilizzati per commentare la Torà (se non spiega tutto, questo può spiegare almeno buona parte del materiale raccolto nel MT). L'ordine, perciò, si trova capovolto: qui è la Torà, o sono i Profeti, a commentare i Salmi, e non viceversa.
L'espressione ordinaria per" aprire" l'omelia sui salmi (un' omelia - ricordiamolo - che non è ripresa dal vivo, ma ricostruita a tavolino) non è più quella solita: il Rabbi Tal dei Tali "aprì" (il testo della Torà con un testo dei Salmi). Ma è un' altra espressione standardizzata (benché io la traduca di volta in volta in modi diversi): zehu she-amar ha-katuv; letteralmente: "questo (vale a dire una cosa simile a questa, aderente a quella appena citata dai Salmi) è ciò che dice (anche) il testo" (e si cita un altro testo, tratto o dalla Torà o dai Profeti o dagli altri Scritti). Questo, almeno, è lo stile proprio della parte più antica del MT, quella che copre i Sal 1-118.
Per fare un esempio, il tredicesimo di questa
antologia, il Sal 38,2 esprime la supplica: "Signore, rimproverami senza ira, correggimi pure ma senza collera". L'omelia del MT (o, se si preferisce, il commento, giacché non si può parlare di un'omelia dal vivo) "apre" questo versetto salmico con un altro versetto profetico. "Corrisponde al testo che dice (oppure 'la Scrittura altrove dice': mi sono permesso ogni sorta di variazione per tradurre una formula sempre uguale): 'Correggimi, Signore, però con moderazione'''. Questa citazione si trova in Ger 10,24, e permette all' omileta di far progredire il discorso perché contiene una particella avversativa, akh, "però", che nel bagaglio teologico dei Rabbini fa scattare immediatamente il tema delle" sofferenze buone" o "per amore" (vedi anche il commento nr. 8, sul Sal 23): "Non sta scritto (in Geremia) 'con moderazione', ma 'però con moderazione': correggimi con sofferenze sopportabili". Perciò il passo di Ger 10,24 diventa una chiave di lettura del Sal 38: quando il salmista chiede a Dio di rimproverarlo senza ira, di correggerlo senza collera, non gli chiede di non correggerlo affatto (vedi invece la traduzione ufficiale del Salterio: "Signore, non castigarmi nel tuo sdegno, non punirmi nella tua ira", che sintatticamente è del tutto difendibile ma non aderisce al senso più profondo dell'invocazione). Gli chiede piuttosto di correggerlo, sì, "però" con correzioni non eccessive, con correzioni che non spengano in lui la gioia della salvezza; con sofferenze, sì, "però" buone, ossia sopportabili, non avvilenti, non devastanti, e perciò stesso anche feconde, preziose, purificatrici.
Subito dopo, l' omileta si volge a un altro testo, questa volta dal libro dei Proverbi (19,18): "Correggi tuo figlio finché c'è speranza". La pedagogia divina, così clemente nei confronti degli uomini, deve ispirarne anche il comportamento: un padre, verso suo figlio, deve usare la stessa pazienza, la stessa benevolenza che Dio usa verso di lui. E questo passo dei Proverbi ne attrae un altro, ancora più rivelativo, dello stesso libro: "Perché il Signore rimprovera colui che ama" (Pr 3,12). Le sofferenze che un uomo patisce, se sono vissute con amore, cioè se sono accolte come un delicato rimprovero da parte di Dio, lungi
dall'essere causa di morte o di maledizione, sono invece un segno di particolare predilezione: quella di un padre verso il figlio più amato. E questo testo ne richiama ancora un altro: "Beato l'uomo che tu correggi, Signore" (Sal 94,12).
E quella che si chiama una charizà, una "collana" di testi infilati l'uno dietro l'altro come perle: si passa dall'uno all' altro per associazione di idee, talvolta anche solo per "analogia", nel senso rabbinico della ghezerà shawwà, ossia a causa della ricorrenza di una stessa parola, noi diremmo per "concordanza" verbale. In questo passaggio da un testo all' altro si attua una vera progressione logica, uno sviluppo tematico talora molto sottile, da richiedere generalmente una seconda o terza lettura per essere colto appieno. Questa volta si ritorna al Salterio, meglio: a una beatitudine del Salterio. Dal salmo, dopo aver percorso altri testi non salmici, si ritorna a un altro salmo: il cerchio si chiude. E quello che, nel primo salmo, poteva apparire come una realtà dura, ostica, che annuncia correzioni e rimproveri - che quindi, in fondo, ricorda la realtà del peccato e della morte - alla fine del discorso omiletico diventa proclamazione di una beatitudine, e beatitudine per la stessa ragione, ossia proprio per le correzioni e i rimproveri.
La collana omiletica viene poi suggellata da una mirabile parabola, quella del tessitore: dopo la collana di testi e la discussione rabbinica (due o più interpretazioni diverse date da altrettanti
Rabbini, o il davar acher, l"'altro commento" che ha quasi sempre una funzione dialettica rispetto al primo), il mashal, la parabola o esempio tratti dalla vita di tutti i giorni, è un altro grande espediente omiletico, dotato di una particolare forza sintetica, riassuntiva dell'interpretazione data, sia questa scritturistica (la collana) o dialettica (la discussione rabbinica).
Nell'esempio che abbiamo dato - ed evidentemente è solo un saggio, scelto del tutto arbitrariamente tra i quarantanove esempi che sono riportati - il testo scelto per "aprire" il versetto del salmo era un passo che lo confermava, che andava - per così dire - nello stesso senso: solamente consentiva di esplicitarne alcune virtualità nascoste. Si può dare però anche un altro caso, quello di una contraddizione apparente tra il testo dei salmi e un altro passo della Scrittura. Dico apparente giacché per presupposto teologico, assiomatico, non si può dare alcuna contraddizione reale all'interno della Scrittura. Si tratta, tuttavia, di spiegare come mai alcuni versetti sembrano contraddirsi, o affermare cose difficilmente conciliabili. Tale operazione non è affatto (tranne che in rarissimi casi) apologetica: è veramente ermeneutica, interpretativa. L'apparente contraddizione (talvolta neppure tale, ma ricercata, creata ad hoc) è solo un modo, un espediente retorico, per far emergere la verità della parola di Dio, la quale è irrevocabile, insindacabile e non contraddittoria.
Segnalo solamente un paio di casi, che lascio verificare al lettore. Nel Sal 26,2 David dice: "Giudicami, Signore". Ma nel Sal 143,2 invece dirà: "Non entrare in giudizio con il tuo servo". Il midrash dapprima abbozza alcuni tentativi di soluzione. Per esempio: "giudicami" quando giudichi gli empi (così che possa risaltare la mia giustizia); "non entrare in giudizio con il tuo servo" quando giudichi i giusti (altrimenti sarebbe evidente la mia iniquità). Ma la vera soluzione
sta nell'altro commento, ove a grandezza di David, a differenza di Giobbe che quand'era colpito si lamentava, o di Ezechia che domandava che avesse fine il castigo, consiste nell' atteggiamento di chi, pur essendo già stato colpito, non si spaventa di doverlo essere ancora, e quasi lo sollecita. Siamo ancora nell' ordine di idee di cui sopra: l'amore per le sofferenze, una volta che si sa che esse sono un segno di amore.
Un altro bell'esempio potrebbe essere il nr. 16, dove il passo del salmo: "Grande è il Signore e lodabile molto nella città del nostro Dio" (Sal 48,2), è apparentemente contrapposto a quello di Malachia: "Dal sorgere del sole al suo tramonto grande è il mio Nome tra le genti" (Ml 1,11). Dov'è che Dio è grande: in tutto il mondo o solo a Gerusalemme? Come si vede, la contraddizione è puramente formale, dal momento che le due affermazioni non solo sono vere entrambe, ma non si contraddicono affatto. Se si fa risaltare la loro diversità, questo è solo un
artificio dialettico, un espediente retorico per far emergere con maggior nettezza la verità della Scrittura: certo Dio è grande dappertutto, essendo l'unico Dio di tutta la terra, ma Sion è il luogo dove egli si è dimostrato più grande, perché lì si è rivelato.

3. Procedimenti ermeneutici

Accanto alle modalità precedenti, che sono di natura espositiva - ho parlato, infatti, di espedienti retorici o omiletici: la collana di testi, le divergenze che emergono dalla discussione rabbinica, la parabola riassuntiva, la soluzione di contraddizioni apparenti - si può forse cercare di individuare, nel midrash in genere e in quello sui Salmi in particolare, quali sono i procedimenti sotto stanti a tutta l'operazione ermeneutica, voglio dire all'interpretazione considerata nel suo insieme, e non soltanto nelle sue modalità espositive.
Prendendo lo spunto, ancora una volta, dal Sal 62,12 - un testo capitale per l'ermeneutica ebraica della Scrittura - si potrebbero forse formulare due principi generali e complementari, che agiscono in maniera incrociata. Naturalmente sono principi che deduco io, che non sono così esplicitamente formulati dai Rabbini, ma
mi sembrano costantemente supposti dalla loro prassi esegetica. Come abbiamo già ricordato, il salmo dice: "Una parola ha detto Dio, due ne ho udite". Da questo si deduce (1) che una sola parola della Scrittura significa sempre più cose. In termini moderni, sarebbe il principio della polisemia: non è detto che la stessa parola significhi sempre, in tutti i contesti, la medesima cosa, anzi è altamente improbabile. Per i Rabbini, il principio è molto più teologico: la parola di Dio è talmente carica, talmente densa di significato, che nei nostri termini umani, cioè nelle parole con cui noi cerchiamo di spiegarla, essa si rifrange necessariamente in una pluralità di concetti e di espressioni. Quello che in Dio è uno, per noi è molteplice: detto con parole di Geremia, è il principio del martello che, percuotendo la roccia, ne sprigiona molte scintille (Ger 23,29 nella comune interpretazione rabbinica). Ma, reciprocamente, si può anche affermare (2) che due parole diverse, nella Scrittura, non significano mai la stessa cosa. Questo principio è un importante complemento di quello precedente e, nella prassi esegetica, forse ancora più usato. Alla base vi è anche qui un postulato teologico. Vuol dire che nella Scrittura non vi è mai nulla di pleonastico, nulla di ridondante. Se la Scrittura impiega due parole, fossero pure sinonimi, per dire una certa cosa, deve avere una sua particolare ragione per farlo, e tale ragione va "ricercata": questo è appunto il senso e lo scopo del midrash.
Ma dal momento che ogni singola parola della Scrittura è così ricca da significare più di una cosa (come afferma il principio nr. 1), si deve ammettere a più forte ragione che due parole non possono ridursi allo stesso significato. Vediamo ora, attraverso qualche esempio, come il MT mette in pratica questo duplice procedimento ermeneutico.

a) Una parola significa più cose

Al livello più semplice, questo principio si applica ogniqualvolta si abbia a che fare con parole rare, andate in disuso, e quindi difficili da stabilire nel loro significato originario: per esempio, gli apax legomena, quelle parole che ricorrono una volta soltanto nella Scrittura. In particolare, il MT dedica molta attenzione ai titoli o soprascritte dei salmi, che di tali termini indecifrabili ne contengono parecchi. Uno di questi termini è la-menazzeach, una parola di cui si è perso l'esatto significato. I moderni traducono, per lo più, con "capocoro" o "direttore d'orchestra". La Vulgata iuxta LXX diceva addirittura in finem. La iuxta hebraeos si avvicina di più al senso corrente in ebraico, per lo meno in ebraico rabbinico: victori, "al vincitore". Tale è dunque la ricezione rabbinica del termine, ma come va intesa? Il midrash sul Sal 4,1 che riporto (nr. 3), offre almeno tre diverse spiegazioni. ''Al vincitore: a colui che è capace e degno di vincere, a colui la cui vittoria è una vittoria eterna" (con gioco di parole su lanezach, che vuol dire in eterno). Però il midrash non si accontenta di queste due spiegazioni abbastanza ovvie, e ne trova una terza, evidentemente privilegiata: "A colui che si lascia vincere dalle sue creature" (ciò che suppone una vocalizzazione del participio al passivo). Comunque nessuna di esse decide: tutte e tre le spiegazioni sono considerate adatte a spiegare un termine oscuro, e possono coesistere. "Una parola ha detto Dio: due (se non tre) ne ho udite", cioè la parola di Dio non si lascia spiegare con meno di due o tre parole nostre.
Similmente, nella soprascritta del Sal 7 (nr. 4), compare il vocabolo shiggajon, che è un apax, e dunque una vera miniera di senso per l'esegesi midrashica. Le versioni antiche lo interpretano genericamente come un equivalente di "salmo", ma il midrash lo ricollega giustamente alla radice sh g h, "errare", "sviarsi". Non si tratta perciò di un "salmo di David", ma di un suo "errore", di un suo gesto impulsivo (in ebraico moderno la stessa parola si è specializzata nel senso di "mania", "idea fissa").
Un esempio un po' diverso è nel Sal 18,51,
dove ricorre il termine magdil (un participio causativo: 'colui che fa crescere'). Il senso è chiaro, ma la pluralità dell'interpretazione è costituita dal fatto che una versione parallela dello stesso salmo (2Sam 22) non legge magdil, bensì migdol: abbiamo così "torre di salvezza", in luogo di "egli fa crescere la salvezza" (e la lezione di 2Sam, confortata da Qumran, è probabilmente quella da preferire). Questo è un caso in cui la pluralità di senso si trasforma in variante testuale.
Esempi di questo genere si possono moltiplicare. Ne ricordo ancora uno, dove non è in gioco un'incertezza semantica (nr. 10). Il Sal 25,1 dice: "A te, Signore, rivolgo l'anima mia". Questo passo viene interpretato a partire da un altro, che dice: "Nella tua mano affido il mio respiro" (Sal 31,6). "Rivolgere" e "affidare" l'anima (il respiro) vengono trattati come sinonimi o "analoghi". Ma questo non vuol dire che significhino la stessa cosa, altrimenti cadrebbe il nostro secondo principio. Vuol solo dire che, quando si incontra il verbo nasa', nel Sal 25,1, accanto al suo significato più ovvio e corrente di "alzare, volgere in alto", occorre leggerci anche una nota di abbandono confidente: "affidare", come nel Sal 31,6. Ancora una volta, nella stessa parola, noi udiamo più di una cosa.

b) Due parole non significano la stessa cosa

Se ogni parola biblica è talmente densa, non da essere equivoca, ma da significare necessariamente più di una cosa, ne consegue, come già detto, l'impossibilità che due parole diverse si riducano allo stesso significato. Non sarebbe altro che una banalizzazione del lessico biblico e, di conseguenza, un impoverimento dell'operazione interpretativa. Un esempio: il Sal 23, quello del buon pastore (JHWH ro'i), a un certo punto parla di due bastoni, usando per ciascuno un termine diverso: "la tua verga (shevet) e il tuo bastone (mish'enet): sono essi che mi consolano" (v. 4). L'impiego di due termini diversi è un po' imbarazzante, perché è difficile pensare a un pastore che regge due bastoni. Un interprete frettoloso può sempre dire che si tratta di un parallelismo sinonimico, ma che in realtà il bastone è uno solo. Invece, anche da un punto di vista esegetico moderno, è importante notare la differenza dei due termini, giacché il primo (shevet) fa pensare allo scettro regale o del capo-tribù (si ha dunque una sovrapposizione, comunissima nel mondo antico-orientale, della figura del re a quella del pastore, o viceversa), mentre il secondo (mish'enet, da una radice che vuol dire "appoggiarsi") rimanda invece al bastone da viaggio o del pellegrino. E questa differenza semantica è importante per l'interpretazione di tutto il salmo, perché solo nella prima parte (fino appunto al v. 4) il salmo parla di Dio come del buon pastore: nella seconda parte prevale l'immagine del compagno di viaggio, di colui che accompagna il pellegrino fino alla casa di Dio, e qui lo ospita. Dunque i due bastoni non si possono confondere, neppure per l'esegesi moderna. Il midrash, naturalmente, propone un altro tipo di lettura. Questi due bastoni sarebbero i due strumenti della pedagogia divina: la Torà e le sofferenze (jissurin: le "correzioni buone"). Comunque il principio è che si deve prestare sempre estrema attenzione alla differenza dei termini (nr. 8).
Un altro caso che si può fare riguarda la soprascritta, comunissima, "salmo di David". In qualche ricorrenza, l'ordine delle parole viene rovesciato, e si legge: "di David, salmo". Anche in questo caso, a prima vista si può pensare che si tratti esattamente della stessa cosa, che la differenza sia fortuita o comunque non significativa. Invece il midrash ne deduce tutta una dottrina dell'ispirazione: "Quando si dice: 'Salmo di David', vuol dire che egli suonava l'arpa, dopo di che lo Spirito santo si posava sopra di lui. 'Di David, salmo': lo Spirito santo si posava sopra di lui, dopo di che egli suonava" (nr. 9).
Un'eccezione, più apparente che reale, a questa regola, è data dal midrash al Sal 50,1, dove i tre nomi divini El, Elohim, JHWH, sono intesi a significare, per ovvi motivi apologetici, una sola realtà, "come se uno dicesse: artista, costruttore, architetto", cioè appunto come sinonimi. Ma il seguito del midrash attesta che una certa distinzione esiste, e corrisponde alle "tre facoltà" con le quali è stato creato il mondo (nr. 17).
Questo sia detto per quanto riguarda due parole diverse, o due espressioni diverse (per esempio, le stesse parole in ordine inverso, come "salmo di David" e "di David, salmo"). Ma c'è anche il caso assai frequente in cui il testo biblico ripete due volte la stessa parola. Anche se qui non abbiamo a che fare con parole diverse, questo caso rientra nella stessa categoria, perché se la Scrittura usa due volte, nello stesso contesto, lo stesso termine, essa deve avere qualche ragione particolare. Anche in questo caso, non si può assumere a priori che si tratti di una semplice enfasi, di una qualche ridondanza retorica: benché sia lo stesso termine, se viene usato due volte,
deve avere due significati diversi.
Nel Sal 57,2 David prega dicendo: "Pietà di me, o Dio, pietà di me". Ripete due volte chonneni. Una doppia insistenza dovuta a un certo trasporto nella sua preghiera? Per il midrash non è così, ma ognuna delle due ricorrenze della medesima supplica ha un significato diverso. Per esempio (giacché le interpretazioni midrashiche di questa differenza sono più di una: cf. nr. 19): '''Pietà di me' affinché io non cada nelle mani di Saul, perché se io cadessi in mano sua certamente non mi risparmierebbe. Ma 'pietà di me' affinché neppure Saul cada in mano mia, perché l'impulso del male non mi seduca inducendo mi ad ucciderlo". Siamo, ovviamente, nel campo molto inventivo del midrash, di cui cerchiamo solo di illustrare alcune procedure. Non si tratta di assumerne indiscriminatamente qualunque approdo, qualunque risultato. Si tratta però di saper apprezzare la fecondità euristica dei suoi presupposti interpretativi.
Ancora: nel Sal 96,1-2 ritorna per tre volte consecutive l'imperativo shiru, "cantate". Perché mai proprio tre volte? Queste tre volte, secondo il midrash, si riferiscono alle tre preghiere quotidiane: del mattino, del pomeriggio e della sera. Anche se il testo non offre alcun appiglio particolare per questa conclusione, questo è un modo di attualizzare il salmo nella vita quotidiana di ogni credente, nella sua preghiera di ogni giorno (nr. 32).
Un esempio simile è dato dalle cinque volte in cui appare l'espressione "Benedici il Signore, anima mia" nei due salmi consecutivi 103 e 104. Queste cinque ricorrenze vengono applicate ai "cinque mondi" che avrebbe visto David, prototipo di ogni credente: nell'utero di sua madre, al momento della nascita, quando fu svezzato, quando morì ed ebbe la visione della Shekhinà, e infine il mondo futuro. Ogni volta David avrebbe ringraziato Dio dicendo: "Benedici il Signore, anima mia" (nr. 35).
In conclusione, vorrei solo notare come la libertà di queste conclusioni midrashiche, che è certamente grande e può talora destare qualche perplessità nel lettore moderno, non sia però del tutto arbitraria, del tutto soggettiva, secondo l'estro di questo o quel rabbino, ma obbedisca appunto a certe regole, segua certi procedimenti tradizionalmente ben collaudati. Vorrei poi aggiungere che tali procedimenti tradizionali sono stati studiati a misura della Scrittura: essi quindi vantano, se non altro, un certo grado di connaturalità rispetto alloro oggetto, sono stati costruiti secondo uno scopo preciso, che non è quello di un'esegesi scientifica o letterale, come la si pratica oggi, ma di un' esegesi non-letterale, midrashica, cioè capace di nutrire la fede (è il caso di insistere su questa equivalenza, dal momento che chi "ricerca" un senso nella Scrittura, altro da quello che è già evidente, lo ricerca mosso dalla fede).

4. David, l'uomo dei salmi

Si narra del Baal Shem Tov, l'iniziatore del movimento chassidico nella Polonia del XVIII secolo, che fosse soprannominato der Telim jid, in jiddish: "l'ebreo dei salmi". Questo perché la spiritualità chassidica da lui iniziata, e la sua stessa formazione personale, erano incentrate sui Salmi più che sulla Torà. In altre parole, il suo messaggio era che si può essere dei buoni ebrei anche se non si è degli esperti in tutte le minuzie legali della Torà, ma non si può essere dei buoni ebrei se non si pregano i salmi.
Vi sono, del resto, vari punti di contatto tra Torà e Salterio: per esempio, nei salmi storici,
in quelli creazionali, in quelli pasquali. Vi sono addirittura dei salmi, come il Sal 1, la seconda metà del Sal 19 e tutto il lunghissimo Sal 119, che non sono altro che elogi della Torà, e raccomandazioni in favore del suo studio, della sua pratica come sorgenti di vita. Infine, lo stesso Salterio è diviso in cinque libri, a imitazione della Torà, e questo è un fatto che, volendo approfondire l'argomento, insegnerebbe molte cose.
In sostanza, si può considerare il Salterio anche sotto questo punto di vista: come una Torà in miniatura, come un "microcosmo della Torà". È dubbio che David, re d'Israele, sia stato
un grande osservante della Torà mosaica - nonostante che varie testimonianze rabbiniche lo ritraggano nella veste insolita di studioso -, eppure egli è senza alcun dubbio l"'uomo dei salmi". Vale a dire: non un uomo esemplare sotto il profilo della sua condotta, non un uomo integro e irreprensibile in tutto, ma un uomo di preghiera, anzi il prototipo dell'orante.
Dei centocinquanta salmi canonici, la maggior
parte sono attribuiti a lui, vuoi esplicitamente vuoi implicitamente (solo ventinove salmi sono espressamente attribuiti ad altri personaggi). Ma sono soprattutto alcuni titoli che contestualizzano il salmo in un particolare frangente dell'avventura davidica, facendo ne come lo specchio della sua anima in varie circostanze da lui vissute. Così, ad esempio, i Sal 3, 7, 18,34, e soprattutto quelli della seconda raccolta davidica (le "preghiere di David, figlio di Jesse"), in particolare quelli che vanno dal Sal 51 al Sal 63.
Con una sola eccezione gioiosa (il
Te Deum regale del Sal 18, "quando il Signore lo liberò dalla mano di tutti i suoi nemici"), le circostanze della vita di David a cui alludono queste soprascritte sono tutte straordinariamente penose, e infatti introducono dei salmi che sono di lamento o di supplica. Tali circostanze sono quelle vissute da David nel suo vagabondaggio per il deserto, o nel suo asilo presso i filistei, prima di diventare re.
Il midrash fa molto caso a queste soprascritte,
e il primo insegnamento che ne deduce è molto semplice: "Salmo di David, quand'era nel deserto di Giuda" (Sal 63,1). "Non sta scritto: Salmo di David quand' era re". Vale a dire che la vera preghiera nasce dall'umiliazione, e non dall' esaltazione. A questo proposito si cita un passo di Isaia (26,16) che, tradotto alla lettera, recita forse così: "La tribolazione è preghiera per noi" (nr. 21).
Un luogo, in modo del tutto particolare, diventa la cifra della preghiera di David in questo
periodo: è la caverna dove si è rifugiato per sfuggire a Saul ("Quando fuggì da Saul nella caverna": Sal 57,1; "Di David, quand'era nella caverna": Sal 142,1). Questa caverna, una specie di anticipazione delle grotte monastiche del deserto di Giuda, è il luogo più tipico della preghiera di David. Come sappiamo dal racconto di
1Sam 24, la caverna scelta da David come rifu
gio diviene proprio il luogo dell'incontro con Saul, che vi è entrato casualmente. Secondo il dettato biblico, chi si mette in pericolo di vita questa volta è proprio l'inseguitore, che viene a trovarsi, senza saperlo, alla mercé dell'inseguito. Ma per il midrash (non senza una profonda intelligenza dello stesso racconto biblico, là dove dice che David "si sentì battere il cuore"), questo incontro col nemico nella caverna è la situazione più difficile, la prova più grande in cui si sia trovato lo stesso David, e non Saul.
Ma il David in fuga per i nascondigli del deserto non va soltanto considerato un uomo braccato da un suo persecutore, egli è un uomo in fuga anche da se stesso. Nel Sal 7, David prega così: "Signore mio Dio se ho fatto questo, se c'è iniquità nelle mie mani, se ho ripagato il mio amico con il male. .. il nemico insegua la mia vita e la raggiunga". Quindi egli sa che, se c'è un nemico fuori, è perché ce n'è uno anche dentro: se vi è un inseguitore all'esterno, è perché Dio gli dà il diritto di inseguirlo a motivo dei suoi peccati. Eppure il vero "errore di David" non è tanto la parola impulsiva che si è lasciato sfuggire contro Saul ("il Signore stesso lo percuoterà"), ma - sembra dire il midrash - è quello di non accorgersi che il Signore ha già neutralizzato il suo inseguitore, cioè gli ha già perdonato i suoi peccati (nr. 4).
David è stato, dunque, un uomo dei salmi, un uomo in preghiera, ancora prima, anzi soprattutto prima di sedere sul suo trono a Gerusalemme. Sono stati proprio i suoi scacchi, le sue
sventure, che gli hanno insegnato a pregare, cioè a riporre in Dio la sua fiducia anche nelle circostanze apparentemente senza esito, come la caverna sbarrata dal nemico. Gli hanno insegnato a ringraziare sempre. "'Di David, salmo. Grazia e giustizia voglio cantare, a te Signore voglio inneggiare' (Sal 101,1). Così disse David al Santo - benedetto sia -: Se tu mi fai grazia, 'voglio cantare'; e se agisci verso di me con giustizia, 'voglio cantare'. In un modo o nell'altro, 'a te Signore voglio inneggiare'" (nr. 34).
Un uomo come David, capace di ringraziare
Dio in ogni circostanza della sua vita, sia gioiosa sia penosa, per il bene come per il male, è un uomo al quale il Signore fa molti doni. Diventa un uomo semplice, disarmato come una colomba (nr. 43), sempre in grado di stupirsi, di meravigliarsi per i doni di Dio, doni che egli sa eccedere qualunque merito personale. Tutto per lui è iniziato da questo stupore infantile: la sua stessa unzione regale quand' era nient' altro che un giovane pastore. "Egli pascolava il gregge di suo padre, e in un batter d'occhio venne fatto re. Tutti dicevano: Fino a un momento fa pascolava il gregge, e tutt'a un tratto è diventato re? Egli rispondeva loro: Voi vi stupite di me? Anch'io mi stupisco di me stesso ancor più di voi! Ma lo Spirito santo intervenne dicendo: 'Dal Signore è venuto questo ed è uno stupore ai nostri occhi'" (nr. 42).
Non si potrà, probabilmente, definire David uno zaddiq, un uomo "giusto" secondo il metro della Torà. Ma egli è certamente un grande chasid, un uomo "benevolo" e "grazioso", ciò che forse è ancora di più, perché la misura della "grazia" e della "misericordia" supera sempre, in Dio, quella della semplice giustizia, se questa è intesa come osservanza diligente dei precetti. Dio stesso, nel suo agire, va sempre al di là della "linea della giustizia": agisce sempre per eccesso,
per abundantiam cordis.
Nel Sal 86,2 David afferma: "Custodisci la mia vita, perché sono un chasid". Il midrash si chiede: "Come può David chiamare se stesso chasid?". Che cosa lo autorizza ad attribuirsi un titolo che spetta a Dio? E risponde: "Chiunque ascolta una maledizione su di sé e tace, benché abbia tutta la possibilità di controbattere, diviene partecipe degli attributi del Santo - benedetto sia -, il quale ascolta le bestemmie che gli rivolgono i pagani, eppure tace. Anche David si è sentito maledire, eppure ha taciuto. Per questo ha potuto dire: 'Custodisci la mia vita, perché sono un chasid'" (nr. 29). Nulla vieterebbe a uno zaddiq, a un uomo "giusto", di controbattere alle offese o agli oltraggi, dal momento che questi sono ingiustificati: sarebbe perfettamente nel suo diritto, ed egli lo sentirebbe, con tutta probabilità, come un suo dovere. Ma David non fa così: egli sa bene di essere peccatore, di meritare molti rimproveri, e questo gli fa accettare anche gli insulti ingiustificati. Così facendo, però - benché forse non lo sappia - egli è più simile a Dio di uno zaddiq.
Del resto, per chi è la Torà? Forse è per gli angeli? Forse è per coloro che sono senza difetto, senza peccato? No, insegna il midrash sul Sal 8 (nr. 5), uno dei più affascinanti dell'intera raccolta. Al contrario, il fatto che gli angeli siano esseri perfetti, creature senza macchia, è precisamente un loro handicap, non un loro vantaggio. Che cosa manca agli angeli? Manca l'esperienza del peccato (almeno di quel genere di peccati, tutti umani, di cui si occupa la Torà), ed è proprio questa loro "mancanza" che li rende inabili a ricevere la legge, fatta per correggere i peccatori e per riparare i guasti causati dal peccato. Con una parabola squisitamente umoristica, gli angeli desiderosi di ricevere la Torà (e di rifiutarla agli uomini) sono paragonati a un apprendista nell' arte della tessitura al quale però manca un dito, quando in questo mestiere è essenziale possedere l'uso di tutte le dita. Vale la pena fermarsi ancora un istante a valutare l'arditezza di questa operazione ermeneutica, perché il Sal 8,6 afferma che è l'uomo ad essere stato creato "poco mancante" rispetto agli elohim o angeli. Il midrash rovescia completamente la prospettiva: sono gli angeli ad avere "di meno", e questo "di meno", ciò che loro non hanno, è la debolezza degli uomini.
Quindi si deve forse ridisegnare anche la figura dello zaddiq. Non è detto che egli debba essere un uomo senza peccati, senza difetti. Il Sal 11,5 dice che "il Signore prova il giusto". Perché
dovrebbe metterlo alla prova, se egli fosse già perfettamente giusto? Ma egli lo prova - secondo il midrash - perché lo sa capace di resistere alle prove (gli empi non sono provati per misericordia, perché non sarebbero capaci di reggere lo sforzo: nr. 6). "Giustizia", in questo contesto, non è sinonimo di perfezione morale, ma è piuttosto una capacità di resistenza nelle prove. Il giusto è un uomo provato, "giustificato" attraverso molte prove, molte sofferenze. E in questo senso, certamente anche David è stato un uomo giusto (cf. Sal 132, 1).
D'altra parte, quali altre connotazioni caratterizzano un giusto? Dal trattato Avot noi sappiamo che il "mondo" - vale a dire la vita degli
uomini nel mondo - si regge sopra tre colonne, che sono lo studio (e la pratica) della Torà, la preghiera e le opere di misericordia (vedi il detto di Shim'on, detto appunto il "giusto", in PA 1,2). Nel midrash sul Sal 136, a proposito del versetto: "Distende la terra sulle acque", c'è tutta una discussione cosmologica per sapere su che cosa è fondata la terra, e la conclusione è la seguente: "La terra sta su una colonna sola, e questa colonna è il giusto, come è detto: 'Il giusto è il fondamento del mondo' (Pr 10,25)" (nr. 46). Quindi neppure tre, ma una colonna sola. Perché, in fondo, parlare di tre colonne è ancora, in un certo senso, un'astrazione. Da nessuna parte si trova lo "studio" o la "preghiera" o le "opere di misericordia": esistono solamente degli uomini o delle donne che studiano, pregano, usano misericordia verso il prossimo. E il giusto è quell'uomo, quella donna, che meglio di altri e in maniera esemplare per tutti, unifica nella sua persona studio, preghiera e misericordia. Persone come queste sono il fondamento della convivenza tra gli uomini. Ora, David non era forse un grande studioso della Torà, ma era un profondo uomo di preghiera, e il suo Salterio è una specie di condensato esistenziale della Torà, di Torà fatta preghiera. Inoltre, l'espressione che io traduco, per mancanza di meglio, "opere di misericordia", in ebraico suona ghemilut chasadim, alla lettera qualcosa come "scambio di grazie" o "di favori" . Anche nella pratica della chesed, come si è visto, David è stato un maestro. Perciò non a torto si può dire che lui e la sua preghiera sono stati, e continuano ad essere, un "fondamento del mondo": il fondamento inamovibile di un "mondo di grazia".

5. Il Dio che ascolta la preghiera

Parlare di David è parlare del suo Dio. A un uomo che fa ricorso a Dio in ogni circostanza, corrisponde necessariamente un Dio che lo soccorre in ogni circostanza. Un Dio che risponde alla sua supplica, ma prima ancora un Dio che ascolta la preghiera. Shomea' tefillà (Colui che ascolta la preghiera): questo è un attributo divino così tradizionale da dare il nome alla sedicesima delle Diciotto Benedizioni quotidiane: "Ascolta la nostra voce, Signore nostro Dio, abbi pietà e misericordia di noi e accogli con misericordia e con benevolenza la nostra preghiera, poiché tu sei un Dio che ascolti le preghiere e le suppliche. Dalla tua presenza, o nostro re, non farci tornare a mani vuote, poiché tu ascolti con misericordia la preghiera del tuo popolo Israele. Benedetto sei tu, Signore, che ascolti la preghiera".
Che cosa significa credere in un Dio" che ascolta la preghiera"? Significa molte cose. Badiamo, anzitutto, che non si crede a un Dio "che risponde" alla nostra preghiera. Si crede in un Dio che la ascolta: si crede cioè che la nostra preghiera non va mai perduta, non cade mai nel vuoto, anche quando non avessimo dei segni visibili di una risposta, di un esaudimento. In secondo luogo, significa che c'è sempre tempo per pregare: le porte della preghiera sono sempre aperte. Non occorre rispettare delle ore fisse: il Signore ascolta e ascolta sempre. "Il suo orecchio non è mai sazio di ascoltare", ci assicura il midrash (nr. 22).
In terzo luogo, si deve osservare che l'espressione è biblica, e precisamente derivata proprio da un salmo, il Sal 65,3:

Tu che ascolti la preghiera
fino a te ogni carne verrà.

Secondo il senso più ovvio, questo vuol dire che il Signore ascolta la preghiera di tutti, di "ogni carne". Ma il midrash propone un altro senso: "Qui non si dice 'ogni uomo', ma 'ogni carne'. Da questo i sapienti hanno dedotto che la preghiera di un uomo non è ascoltata, a meno che egli non renda di carne il suo cuore". Così facendo, il midrash introduce una condizione perché la preghiera venga ascoltata. Certamente il Signore ascolta tutti, ascolta chiunque (presso di lui, aggiunge ironicamente lo stesso midrash, non c'è il problema che siano in troppi a supplicare nello stesso momento) però occorre che la preghiera sia fatta con sincerità: con un "cuore di carne" e non con un cuore indurito.
Infine si può aggiungere una quarta osservazione, che non emerge direttamente dal midrash (non almeno dal MT) ma mi sembra implicita
dal contesto del Sal 65, secondo la lettura masoretica. Il salmo, infatti, inizia così:

Per te il silenzio è una lode
o Dio, in Sion, e per te si adempie ogni voto.
Tu che ascolti la preghiera
fino a te ogni carne verrà.

Si parla, dunque, del silenzio come di una lode, di una lode silenziosa. E subito dopo si aggiunge che il Signore ascolta la preghiera. Non mi sembra forzato dedurne che il Signore ascolta anche la preghiera silenziosa, come quella di Anna che muoveva le labbra senza proferire alcuna parola. Non è necessario che la preghiera sia vocale per essere ascoltata, tanto meno è necessario blaterare, come fanno i pagani, "i quali credono di essere ascoltati a forza di parole" (Mt 6,7). Chi conosce Colui che ascolta ogni preghiera, sa che non c'è bisogno neppure delle parole.
La preghiera, infatti, è un "culto del cuore". "Dice Rabbi Jochanan: In che cosa consiste il servizio ('avodà) del Santo - benedetto sia -? Nella preghiera. Infatti anche Mosè ha detto: 'Se davvero ascolterete i precetti che io oggi vi ordino per amare il Signore vostro Dio e per servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima' (Dt 11,13). Qual è dunque il servizio che l'uomo deve compiere? Non è nient'altro che la preghiera, come è detto: 'Servite il Signore nella gioia' (Sal 100,2)" (nr. 23).
Se davvero ascolterete: qui però si instaura una reciprocità. "Se avrai ascoltato, sarai ascoltato" (nr. 39). La preghiera è supplica che chiede di essere ascoltata, ma è anche, essa stessa, ascolto: ascolto di una voce che ha già parlato ancora prima di rispondere. Si stabilisce, pertanto, un rapporto dialogico, cioè un rapporto di amore: "lo amo, perché il Signore ascolta la mia voce, le mie suppliche" (Sal 116,1). lo amo, e questo amore si fonda sull' ascolto reciproco. Il midrash su questo salmo fa ampio ricorso al linguaggio del C antico: "Il Santo - sia benedetto - dice a Israele: 'Fammi sentire la tua voce'. Come mai? 'Perché la tua voce è dolce' (Ct 2,14). 'O tu che abiti nei giardini, i compagni sentono la tua voce: fatti udire anche da me!' (Ct 8,13). Infatti il Santo - benedetto sia - desidera ascoltare la preghiera di Israele" (nr. 39).
Non è dunque soltanto per puro dovere, per obbligo o per benevola concessione che il Signore "ascolta la preghiera" di Israele, ma è una sua
gioia, una sua delizia, come lo sposo si diletta nell'udire la voce della sposa. E anche Israele non è solo grata al Signore perché ascolta la sua voce, ma per questo lo ama, come il suo sposo. Alla condizione, ripeto, che l'ascolto sia reciproco: "Voi volete che io ascolti la vostra voce? Prima io voglio che voi ascoltiate me, come è detto: 'Se davvero ascolterete la voce del Signore vostro Dio ...'''.
Il Signore, come si è detto, ascolta chiunque
lo invochi con cuore sincero. Egli non usa parzialità, nel senso di preferire il ricco al povero, di favorire uno rispetto a un altro. Però ha anche lui le sue preferenze, le sue predilezioni: il Signore ascolta soprattutto il gemito del misero, di colui che ha un cuore sofferente, dolorante. Questo è un aspetto documentabilissimo nell'insieme della letteratura rabbinica. Nella scelta di omelie che presento non appare in grande evidenza. Si può comunque citare il commento nr. 27: "'Mi ricordo di Dio e mi commuovo' (Sal 77,4). Quando Israele si ricorda del Santo benedetto sia - geme e si commuove, come si dice: 'Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio, e le mie viscere si commuovono per lui' (Ct 5,4). Ma anche quando il Santo - benedetto sia - si ricorda di Israele le sue viscere si commuovono per lui, come è detto: 'Non è Efraim un figlio caro per me, un bimbo con il quale mi diletto? Da quando gli ho parlato continuo a ricordarmene: perciò le mie viscere si commuovono per lui' (Ger 31,20)".
La preghiera si definisce perciò come un ascolto reciproco, un rapporto amoroso, un "culto del cuore". Ma non vuoI dire che sia un fatto puramente interiore, da celebrarsi esclusivamente nel segreto della coscienza. Essa comporta anche una dimensione pubblica, esteriore, che coinvolge tutto il corpo. Non so quanti, dei miei lettori cristiani, abbiano avuto modo di assistere ad una preghiera ebraica, in qualche sinagoga italiana o a Gerusalemme, presso il muro occidentale. Se lo hanno fatto, saranno stati certamente impressionati dal modo in cui pregano gli ebrei: non solo con la bocca, ma dondolandosi con tutto il corpo. Questo coinvolgimento del corpo nella preghiera, che riflette senza dubbio una matrice orientale (gli stessi cristiani orientali sono soliti compiere molte prostrazioni nella loro preghiera) viene giustificato dal midrash
proprio a partire dal Salterio. Il commento nr. 25, sul Sal 71,15 ("La mia bocca narra la tua giustizia"), enumera tutte le singole parti del corpo che prendono parte alla preghiera: il capo, gli occhi, la bocca, le orecchie, la gola, la lingua, le labbra, il cuore, le reni, le mani, i piedi, le viscere, le ossa, l'anima, il respiro. E per ognuna di queste membra l'omileta è in grado di citare almeno un versetto dei Salmi dove effettivamente si dimostra il loro coinvolgimento nella preghiera. Il risultato è un piccolo trattato antropologico (che meriterebbe di essere approfondito) sull'uomo in preghiera.

6. Grazia e redenzione

Della" grazia", come chiave di volta di tutto l'edificio del Salterio, e chiave di volta anche del midrash sui Salmi, abbiamo già parlato abbastanza. Ma resta da illustrare una particolare congiunzione della grazia: quella con la redenzione messianica (ghe'ullà). Questo è un mistero grande, cui il midrash allude con somma discrezione, e non potrebbe essere altrimenti. L'esperienza della grazia divina è una sorta di anticipazione della liberazione finale. Con le parole del salmista, è un po' come vedere "la luce nella luce". La grazia di Dio che noi già sperimenti amo in questa vita presente, è come la luce di una lanterna che ci consente di intravvedere una luce ben più grande, ben più luminosa, ossia la luce del mondo che viene. '''Com'è preziosa la tua grazia, o Dio! ... Poiché in te è la fonte della vita, nella tua luce vedremo la luce' (Sal 36,8 ss.). Dice Rabbi Jochanan: C'era un uomo che di notte aveva acceso una lampada, ma questa si era spenta. L'aveva riaccesa ma si era di nuovo spenta. Disse tra sé: Fino a quando dovrò darmi pena con questa lampada? Aspetterò che sorge il sole e potrò camminare alla luce del sole" (nr. 12). Gli sviluppi di questo midrash orientano decisamente verso la liberazione finale del popolo ebraico dalle schiavitù politiche di questo mondo. "Allora Israele disse: Siamo stanchi di essere oppressi, liberati, e poi di nuovo oppressi. Adesso non preghiamo più per una liberazione umana, ma nostro liberatore dev'essere il Signore delle schiere, il cui Nome è 'Santo di Israele'. D'ora in poi non vogliamo più essere illuminati dagli uomini, ma che ci illumini il Santo - benedetto sia - come è detto: 'Poiché in te è la fonte della vita, nella tua luce vedremo la luce'''. Un altro midrash, che si trova nella Pesiqta Rabbati è ancora più esplicito nel dare una lettura messianica di questo versetto dei Salmi. "Che significa 'nella tua luce noi vedremo la luce'? Quale luce attende l'assemblea di Israele? La luce del Messia, come è detto: 'E vide Iddio la luce che è buona' (Gen 1,4)". Segue uno sviluppo estremamente istruttivo per documentare l'attesa, anche rabbinica, di un Messia sofferente: "faranno di te come questo vitello, i cui occhi sono spenti" (4).
In
questa raccolta, ho riportato il midrash di un solo salmo messianico, il Sal 2,7, dove l'espressione "lo ti ho generato" (tipica dei salmi di intronizzazione del re), fa scattare nel commentatore un duplice riflesso. Non solo quello della generazione del Messia come" creatura nuova", e principio di una nuova creazione; ma anche quello delle "doglie messianiche": la fatica e le sofferenze necessarie alla sua generazione. "Rabbi Huna dice: Le sofferenze del mondo sono state divise in tre parti. La prima se la sono presa i patriarchi e tutte le altre generazioni; la seconda la generazione che ha subìto la persecuzione (al tempo di Adriano); e la terza è quella riservata alla generazione del Re Messia" (nr. 2).
Tuttavia, nella prospettiva ebraica, la cosa più determinante non è tanto la singola figura del Messia, bensì l'avvento dei tempi messianici, che possono addirittura precedere e preparare la venuta del Messia. Anche se questa è probabilmente una delle idee più difficili da accettare da parte dei cristiani, si possono dare dei "giorni del Messia" anche senza di lui. Quello che conta, da un punto di vista ebraico, è infatti la ghe'ullà, la redenzione di Israele dalla sua sottomissione al giogo dei poteri mondani, e questa è una realtà che si può già attuare - almeno incoativamente - anche senza Messia o prima che egli venga. La ghe'ullà, infatti, altro non è se non la libertà, per Israele, di far ritorno alla sua terra e lì condurre una vita pacifica e sicura, "ciascuno sotto l'ombra del suo fico". Il midrash nr. 28, sul Sal 85, spiega anche quale sia il particolare legame di Israele con la sua terra, o perché Dio la ami in un modo così particolare: perché vi è tutta una serie di precetti della Torà che non si possono compiere altrove, ma solamente su di essa.
Non vi è, dunque, da dire: con il Messia sì, ma senza Messia non può darsi "liberazione". Si deve piuttosto parlare di una maggiore o minore "perfezione" (shelemut: "interezza") del regno di Dio: "'Il Signore regna, i popoli tremano' (Sal 99,1). Rabbi Jehudà riferisce in nome di Rabbi Shemu'el: Per tutto il tempo che Israele è in esilio, il regno dei cieli non è perfetto e i popoli del mondo vivono tranquilli. Ma quando Israele sarà liberato, il regno dei cieli sarà perfetto e i popoli del mondo si metteranno a tremare. Perciò 'il Signore regna, i popoli tremano'" (nr. 33). Altre figure prendono rilievo, dotate esse pure di una forza "messianica", ossia redenti va: soprattutto quella della Shekhinà. "'Il Signore è grande in Sion' (Sal 99,2).
Dice Rabbi Chanina: Quando la sua Shekhinà farà ritorno a Sion, allora Dio sarà grande in Sion".
La liberazione di Israele sarà anche una redenzione della Shekhinà, la "divina presenza" costretta a umiliarsi per seguire il suo popolo in esilio. Qui il linguaggio si fa mistico, perché riesce impossibile distinguere nettamente fin dove si parla del popolo e dove si comincia a parlare della Shekhinà. Redimendo il suo popolo dal suo esilio, Dio in fondo non fa altro che redimere se stesso. A partire dal v. 5 del Sal 137: "Se ti dimentico, Gerusalemme, la mia destra si dimentichi", il midrash deduce che, allorché gli abitanti di Gerusalemme furono condotti in esilio, con le mani legate dietro la schiena, anche il Santo - benedetto sia - (kivjakol: se ciò fosse possibile!) "ripose la sua destra dietro la schiena" (Lam 2,3). In altre parole, egli disse: "Per tutto il tempo in cui i miei figli sono legati in schiavitù, anche la mia destra sarà legata insieme a loro. Ma quando libererò i miei figli, libererò anche la mia destra" (nr. 47). Il linguaggio si fa mistico e anche paradossale, perché è solo con la sua destra che il Signore può salvare il suo popolo, ma finché il suo popolo non sarà salvato, non sarà libera neppure la sua destra...
Un discorso simile si potrebbe fare per Gerusalemme, la città che, secondo il Sal 122,3, "è unita insieme a se stessa". L'espressione, davvero singolare e variamente corretta sulla base delle versioni, fa pensare a due parti unite insieme
fino a formare una stessa realtà. Il midrash nr. 45 la interpreta in riferimento alla Gerusalemme celeste e a quella terrestre, che non sono due realtà contrapposte, ma due facce complementari della medesima realtà, ciascuna delle quali è"unita insieme a se stessa", non insieme a un' altra cosa. E, riprendendo una famosa parola talmudica, il midrash attribuisce a Dio questo intento: "Non entrerò nella Gerusalemme di lassù, finché non sarò entrato nella Gerusalemme di quaggiù". Chi deve entrare nella Gerusalemme di quaggiù, se non il suo popolo? Vuol dunque dire che neppure la Shekhinà farà ritorno alla sua sede celeste, finché Israele non ritornerà in Sion.
Oltre alla fine dell' esilio e al ritorno del popolo ebraico a Gerusalemme e in terra d'Israele, in che cosa ancora si distinguerà il "mondo che viene" da quello presente, da "questo mondo"? Vorrei notare, anche a questo riguardo, che il pensiero ebraico è molto meno dualistico di quello dei nostri teologi. Come nel caso delle "due" Gerusalemme, che poi sono una sola ma vista da due punti diversi: dall' alto o dal basso, neppure qui si parla di "due" mondi, senza continuità tra di loro, come se il mondo "futuro" fosse puramente escatologico, un sogno utopistico senza alcun legame con il nostro oggi.

Rabbi Hanoch di Alexander disse: "Anche le genti della terra credono all'esistenza di due mondi. 'In quel mondo', li si sente ripetere. La differenza sta in questo: loro pensano che i due mondi siano distinti e separati l'uno dall'altro, Israele invece professa che i due mondi sono in verità uno solo e devono diventare uno solo in tutta realtà" (5).

L'espressione ebraica più comune non è neppure "mondo futuro", ma "mondo che viene", al presente: ha-'olam ha-ba'. Il "mondo che viene" è un mondo in azione già adesso, sotto i nostri occhi: è "questo mondo", nella misura che si sta trasformando in un altro. È questo mondo, lo stesso che noi tutti conosciamo, ma non in quanto "questo", cioè non in quanto un mondo chiuso, senza possibili sviluppi, condannato a essere identico a se stesso, bensì in quanto "viene", cioè aperto a un futuro dagli esiti ignoti, imprevedibili, è un mondo capace di destarci ancora molte sorprese. n mondo "che viene" non è un altro mondo, diverso dal nostro, è il nostro mondo, ma il nostro mondo "in cammino". Che cosa, dunque, distingue il mondo "che viene" da quello presente? Verso che cosa tende il nostro mondo? Il Sal 104,35 recita: "I peccatori cesseranno dalla terra, e gli empi non saranno più". Attraverso due approcci esegetici leggermente diversi, ma nel fondo convergenti, il commento legge così: "I peccatori saranno resi perfetti (gioco di parole tra jittamu e temimim, che provengono dalla stessa radice) e quindi non saranno più empi". Oppure: "I peccati cesseranno dalla terra, e allora non ci saranno più empi" (nr. 36). n mondo "che viene" è lo stesso nostro mondo, ma senza peccato. Si badi: ciò che cesserà, verrà abolito, cancellato è il peccato, e non i peccatori, perché grazie alla cessazione del primo anche i secondi "non saranno più empi" per effetto immediato. Anche il Sal 1 si conclude con l'affermazione: "n Signore conosce la via dei giusti, ma la via degli empi si perderà". Anche qui si può notare che ciò che si perde è la via degli empi, la loro condotta, e non la loro persona. Ma il midrash va ancora più in là, perché per esso i giusti sono nientemeno che Adamo ed Eva, mentre "la via degli empi" è quella del serpente. n mondo che viene è uguale al mondo attuale, meno il serpente.
Se così è, se il mondo che viene è davvero un mondo già presente ma ancora "in cammino", un mondo soggetto a trasformazioni, ne consegue che la stessa redenzione è un processo già in corso, ma è un processo graduale, per tappe. Non succederà che, svegliandoci un bel giorno, vedremo un mondo nuovo affacciandoci alla finestra. Proprio in questo punto il MT ci offre alcune pagine mirabili, e tra le più originali di tutta la raccolta. Come ho già segnalato, il Sal 18,51 legge magdil invece di migdol (come nel passo parallelo di 2Sam 22): "Egli fa crescere la salvezza del suo Re". Vuol dire, perciò, che la salvezza, la redenzione messianica, è "crescente". "Rabbi Judan dice: Il motivo è che la redenzione di questo popolo non arriverà tutta d'un colpo, ma poco per volta". Perché è cosi? Perché "se adesso, che sono immersi in grandi afflizioni, la redenzione venisse loro tutta d'un colpo, non saprebbero sostenere una salvezza cosi grande". Il motivo è dunque pedagogico, ed è illustrato dal progredire della luce prima del sorgere del sole: "Per lo stesso motivo la redenzione è paragonata all'aurora, come è detto: 'Allora la tua luce sorgerà come l'aurora' (ls 58,8). Perché viene paragonata all' aurora? Perché non c'è oscurità più grande di quella che precede il mattino, e se il disco solare sorgesse proprio in quell'ora in cui le creature sono più addormentate, sarebbero tutte sorprese" (o accecate: nr. 7).
La gradualità della luce è per non coglierci di sorpresa, o addirittura per non accecarci, per non offendere i nostri occhi, in maniera tale che poi non saremmo in grado di accogliere la luce. Ma non dobbiamo neppure pensare a un processo lineare, a una crescita senza interruzioni. Al contrario, "non c'è oscurità più grande di quella che precede il mattino": la crescita della salvezza avviene per alternanza di buio e di luce. Anzi la pedagogia divina che in un certo senso frena, ritarda, la salvezza, ovvero impedisce che essa si attui tutta d'un colpo, lo fa anche per un altro motivo. "Se adesso, che sono immersi in grandi afflizioni, la redenzione venisse loro tutta d'un colpo, non saprebbero sostenere una salvezza cosi grande" e questo è il primo motivo, ma subito aggiunge: "tanto più che essa sarebbe accompagnata da tribolazioni ancora più grandi" . La redenzione è accompagnata (meglio: preceduta) da tribolazioni, e quanto più grande è la salvezza, tanto più grande è la tribolazione che la precede. Perché sia cosi non è dato saperlo: accontentiamoci di sapere che, se il Signore ritarda la nostra liberazione, lo fa per non sottoporci a prove ancora maggiori, che per il momento non saremmo in grado di sopportare.
Perciò, da parte nostra, non dobbiamo mai cessare di sperare: sperare e ancora sperare, speranza dopo speranza. Come la redenzione è graduale, è progressiva, così la speranza nella redenzione (e Israele non possiede nient'altro che questo!) dev'essere continua, incessante (nr. 14).
La speranza non ha mai termine perché la redenzione, che è il suo oggetto, è un processo senza termine. Questo modo di pensare conduce a un' esegesi abbastanza sorprendente anche del titolo di quei salmi che sono detti, appunto in base alloro titolo, "cantici delle salite" o "dei gradini" (shirè ha-ma'alot). Ci sono varie spiegazioni, antiche e moderne, di questo titolo: canti da recitarsi sui "gradini" del tempio, quelli che separavano il cortile degli israeliti dal santuario vero e proprio; oppure, più semplicemente, canti che accompagnavano le "salite" a Gerusalemme in occasione delle feste: canti di "pellegrinaggio". Il midrash li intende invece, alla lettera, come "canti graduali", e sottolinea che si tratta di un plurale (ma'alot): "Non sta scritto qui 'cantico della salita', ma 'cantico delle salite', perché quando Israele sale, non sale un solo gradino, ma molti gradini" (nr. 44). Si ribadisce, perciò, l'idea di una certa "gradualità" della redenzione d'Israele. Gradualità, però, non significa "regolarità": può benissimo darsi - anzi è la norma - che quando Israele "risale" dalla sua condizione di esilio e di schiavitù, non risalga un gradino per volta, ma molti gradini in una volta sola. Ci sono, nella storia della redenzione, dei punti di svolta che imprimono un'accelerazione, così come possono esserci dei punti morti, delle lunghe stagnazioni o persino delle ricadute.
L'opera della redenzione è celebrata soprattutto dai salmi pasquali: l'hallel egiziano (Sal 113-118) e il grande hallel (Sal 136). Che cos'ha di particolarmente pasquale il Sal 113, con cui inizia l'hallel egiziano? L'idea che il Signore "solleva dalla polvere il debole, dalla spazzatura rialza il povero" (v. 7)? Ma questa si trova pure nel cantico di Anna o nel Magnificat di Maria, senza che siano per questo dei cantici pasquali. A dire il vero non c'è proprio nulla di specificamente pasquale in questo salmo. Se non c'è, bisognava trovarlo. La grande trovata del midrash sta nel cercare un sottinteso: "Lodate, servi del Signore". Se sono servi del Signore, vuol dire che non sono più servi del faraone. Anzi, il momento in cui i figli di Israele sono diventati servi del Signore è proprio quando hanno cessato di essere servi del faraone: nella notte dell'uscita dall'Egitto (nr. 38). Questa è stata la prima notte in cui essi, non più schiavi, hanno cantato al Signore un canto libero, un salmo pasquale. Nel Sal 77,7 si dice: "Ricordo il mio suonare nella notte". Secondo il midrash (lo stesso nr. 38) "questo si riferisce al salmo di quella notte in cui tu ci liberasti e ci facesti uscire in libertà". Tutti i grandi momenti storici, le grandi tappe della redenzione d'Israele, sono segnate da un canto. Quando Israele uscì dall'Egitto, ci fu il cantico del mare (Es 15); quando stette presso il monte Sinai per ricevere la Torà, essi intonarono (secondo il midrash) il cantico dell'alleanza, ossia il Cantico dei cantici: "Mi baci con i baci della sua bocca". E così via, fino al momento in cui "lo vedranno nel mondo avvenire", e dal 10ro cuore sgorgherà un cantico nuovo (nr. 49).

7. Quarantanove porte

Abbiamo così introdotto, riassumendoli sotto alcuni grandi temi (la grazia, il midrash e le sue procedure, David, la preghiera, la redenzione) quarantanove esempi di lettura ebraica dei Salmi. Mi resta solo da giustificare come mai gli esempi riportati siano precisamente quarantanove, non uno di più né uno di meno. Sono sincero: io non penso che varrebbe la pena di tradurre per intero il MT. Oltre a essere un'impresa defatigante per il traduttore, sarebbe scoraggiante anche per il lettore, e in definitiva avrebbe poco senso. Voglio dire che non tutto, nel MT, è ancora così interessante e suggestivo per il lettore moderno. Ma certo vi avrei potuto attingere più di quarantanove testi da offrire nella presente raccolta. Se mi sono limitato a questo numero, un motivo c'è, ed è la forte sollecitazione che ho ricevuto da un testo chassidico. Ho già accennato al fatto che il Baal Shem, il fondatore del chassidismo, era chiamato "l'ebreo dei salmi". L'importanza dei Salmi (quasi a discapito della Torà) per l'edificazione della vita ebraica è un punto fortemente rivendicato dal movimento chassidico, almeno ai suoi inizi. Il testo che riporto di seguito appartiene a Rabbi Nachman di Breslav, un nipote del Baal Shem, e forse l'ultimo grande maestro chassidico (1772-1811). Esso associa strettamente la recita dei Salmi alla teshuvà, alla "conversione" a Dio, e quindi alla "riparazione" dell'anima di ciascuno dai suoi peccati.

Chi vuole ottenere la conversione, si abitui a recitare i salmi, perché la recita dei salmi è la cosa più adatta alla conversione. La conversione ha, infatti, cinquanta porte, per quarantanove delle quali ogni uomo può entrare, una volta che le abbia raggiunte, ma la cinquantesima porta ha a che fare - se così si può dire - con la conversione del Nome - benedetto sia - in se stesso. Perché anche presso di Lui - benedetto sia - noi troviamo un bisogno di conversione, come sta scritto: "Ritornate a me, e io ritornerò a voi" (Ml 3, 7). Queste quarantanove porte della conversione sono poi da mettere in rapporto con le quarantanove lettere che compongono i nomi delle dodici tribù del Signore, e ciascuna delle porte reca una delle quarantanove lettere delle tribù. E avviene che "tutti desiderano temere il suo Nome" (cf. Ne 1,11), ma ciononostante non tutti ottengono di convertirsi, perché ci può essere un uomo che non ha in sé alcun risveglio (predisposizione) per la conversione. E quando anche uno avesse un certo risveglio (per la conversione), può darsi che egli non meriti di giungere alla lettera e alla porta della conversione che è adatta per lui. O persino, nel caso che ci arrivi, può darsi che la porta della conversione sia chiusa. Per tutti questi motivi, si dà che un uomo non ottenga la conversione. Ma attraverso la recita dei salmi, anche chi non abbia alcuna predisposizione si dispone a convertirsi e, grazie ai salmi, ottiene pure di giungere alla porta e alla lettera che sono adatti per lui, e di aprire la porta. Succede così che, attraverso i salmi, egli ottenga di convertirsi, ed èquello che dice la Scrittura: "Oracolo dell'uomo posto in alto" (2Sam 23,1), ciò che i nostri maestri - la loro memoria sia in benedizione hanno interpretato: "Oracolo dell'uomo (David) che ha posto (stabilito per primo) il giogo della conversione" (bMo'ed Qaton 16b). Infatti per mezzo della sua attività di "cantore dei canti di Israele" (2Sam 23,1), vale a dire per mezzo del libro dei Salmi che egli ha fondato, ha stabilito pure il giogo della conversione, giacché è attraverso i salmi, come è stato detto, che si ottiene la conversione. Questo è anche quanto hanno detto i nostri maestri - la loro memoria sia in benedizione -: "David non avrebbe meritato di cadere in questo affare (l'adulterio con Betsabea) se non fosse stato per indicare a ognuno la via della conversione" (b'Avodà Zarà 4b). In sostanza, l'essenziale dell'insegnamento circa la conversione è stato dato al re David, e 1'essenziale della conversione del re David si trova nel libro dei Salmi, che egli ha redatto con una illuminazione molto grande dello Spirito santo, al punto che ogni uomo, secondo quanto egli è, può ritrovare se stesso nel libro dei Salmi e ottenere la conversione attraverso la recita dei salmi, così come è stato detto (Liqqutè Moharan II,73).

Che cosa afferma, in sintesi, questo testo di Rabbi Nachman?
a) Che per convertirsi occorre una particolare "predisposizione" del cuore. Il testo ebraico parla, alla lettera, di "risveglio" della coscienza. La recita assidua dei salmi, e nient' altro che questo, opera nell'uomo la predisposizione ne
cessaria per ottenere (lett.: "meritare") la grazia della conversione.

b) All'interno del libro dei Salmi, poi, ciascuno deve trovare un punto particolare di accesso alla conversione, il punto più adatto per lui. "Ogni uomo infatti, secondo quanto egli è, può ritrovare se stesso nel libro dei Salmi" (il corsivo, nel testo, è mio). Per ciascuno si tratta di individuare questo punto di identificazione con l'io dei salmi, quello che accende in lui il risveglio della sua coscienza.

c) Rabbi Nachman parla, a questo proposito, di quarantanove porte. Sarebbero cinquanta, ma una è quella riservata al Santo - benedetto sia perché anche lui - se ciò fosse possibile - ha un certo bisogno o piuttosto il desiderio di "convertirsi" a noi. Queste quarantanove porte corrispondono alla somma delle lettere che costituiscono i nomi delle dodici tribù di Israele (in pratica la somma delle lettere ebraiche dei vv. 2-4 di Es 1). La corrispondenza del numero quarantanove con i capostipiti delle dodici tribù, indica che la cifra è sufficiente perché ognuno possa trovare, nei salmi, la sua "porta", la porta di accesso alla propria conversione. Si può anche ricordare, in associazione con questo testo, che l'impronta forse più innovativa o comunque più durevole, lasciata da Rabbi Nachman nella prassi ebraica è il tiqqun kelali, la "riparazione totale" dei propri peccati. Questa consiste semplicemente nella recita consecutiva di dieci salmi (Sal 16, 32, 41-42, 59, 77, 90, 105, 137, 150). La tradizione cristiana, invece, ha isolato nel Salterio sette salmi penitenziali.
Ma non è detto che uno debba trovare la sua porta esclusivamente nei salmi penitenziali, nelle suppliche e nei lamenti. Forse la può trovare anche nei salmi di lode o di ringraziamento. Ognuno trova la sua porta là dove si verifica per lui un incontro con Dio. Che cos'è, infatti, la preghiera? Non è tanto un atto riflesso, codificato, che si esprime in gesti o parole comuni. La preghiera è anzitutto un orientamento fondamentale della nostra esistenza verso Dio. Noi non facciamo sempre caso al nostro respiro o al battito del nostro cuore. Ciò non toglie che tali operazioni nascoste, inconsapevoli, siano quelle più essenziali per la nostra vita. La preghiera riflessa, fatta di parole, come quella dei salmi, non è altro che la presa di coscienza, l'apparenza in superficie, di dinamiche molto più profonde. Quelle che seguono sono appunto quarantanove porte di accesso a tale autocoscienza, quarantanove occasioni che possono mettere in moto il risveglio della nostra anima, la nostra "conversione" (ossia la riscoperta del suo orientamento originario e fondamentale). Sono, o almeno possono essere, momenti di illuminazione, scintille dell"'illuminazione molto grande" con cui David ha redatto il libro dei Salmi: momenti di gioia per la salvezza o di tristezza ma già consolata, in ogni caso di ringraziamento. Se qualcuno vi troverà una "porta" adatta per lui, o anche solo una finestra, uno spiraglio, ringrazi. Ma eviti di ridurre la preghiera alla sua porta di accesso. La preghiera che ci insegnano i salmi è un mondo molto più vasto e gratuito, è un flusso profondo che finisce per ritmare la nostra vita come il respiro o il pulsare del sangue. Come si è espresso splendidamente il midrash posto in esergo a questa piccola antologia di letture salmiche, non è per altro, se non per la preghiera, che un uomo, un credente sta in piedi.

Jerusalem, 28 dicembre 1993

 

[1] G. Ravasi, Il libro dei Salmi (l-50). Commento e attua lizzazione I, Bologna 1981.
[2] The Meaning of Hesed in the Hebrew Bible, a New Inquiry, Missoula 1978 (Harvard Semitic Monographs 17).
[3] W. G. Braude, The Midrash on Psalms I, New Haven 1959 (Yale Judaica Series 13), p. XII. Dall'introduzione di Braude alla sua traduzione inglese del MT, nonché da quella di Buber alla sua edizione, ricavo le notizie storiche e letterarie indispensabili che presento in questo paragrafo.
[4] Questo midrash è reperibile nella raccolta Sete del Dio vivente, Roma 1981, a cura di M. Gallo, pp. 227-232.
[5] M. Buber, Il cammino dell'uomo, Bose 1990, p. 62.