PICCOLI GRANDI LIBRI  ENRICO UGGÈ

RADIO ALVORADA

P. ENRICO UGGÈ, Missionario in Brasile.

Il Vangelo tra gli indios Sataré-Maué

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA

Inaugurata il 1° ottobre del 1967 dai missionari del PIME nella diocesi di Parintins, Radio Alvorada raggiunge, con un raggio di copertura di 1500 chilometri, le comunità degli indios dell' Amazzonia brasiliana sparse lungo i grandi fiumi e i loro affluenti. La regione del Parintins comprende due aree indigene, quella degli Hixkariana e quella dei Saterê-Maué, che vivono di caccia e di pesca e sono in maggioranza estremamente poveri.
L'emittente, che trasmette per 17 ore al giorno, è uno strumento importantissimo di evangelizzazione, informazione e collegamento in un' area in cui le comunicazioni sono rese difficili dalle enormi distanze e dai mezzi di trasporto, esclusivamente fluviali. Gli obiettivi della radio sono di formare una coscienza critica e responsabile in centinaia di persone completamente isolate dal resto del mondo e che non godono di nessun tipo di assistenza.
Padre Enrico, giunto in Brasile nel gennaio del 1972, arriva a Parintins nel 1990 e poco dopo comincia a lavorare a Radio Alvorada, dove tiene una trasmissione che registra un alto indice di gradimento. In queste conversazioni radiofoniche racconta le visite ai villaggi dell'interno, la vita quotidiana degli indios, la loro cultura e le loro tradizioni, e la presenza dei missionari che portano un aiuto concreto e la parola del vangelo. Anche Radio Alvorada, che significa aurora, è un raggio di speranza per gli indios della foresta amazzonica.

Enrico Uggè, missionario del P/ME, si occupa principalmente dei Saterê-Maué, studiandone i costumi e pubblicando vari studi. Nel 1980 fonda la Scuola Agricola con internato dell'area indigena dell'Andirá, di cui segue la programmazione, e attualmente si occupa anche del settimanale diocesano. Nel 1994 è stato nominato vicario generale della diocesi di Parintins. 

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La vecchia Veronica... e un feticcio in canoa La piccola scure di pietra La leggenda del pitone Il serpente boa dalle molte vite
"Padre, sono quarant'anni che l'aspetto" L’incontro con il giaguaro susuarana Tempesta nell'Andirà Anhag (il demonio)
La casa senza... Jacaré La "pepeua" ladra Colui che mantiene le promesse Il cerbiatto al posto del rospo
Il guaranà degli indios satere-maué Il piranha e il dito del padre L’orologio di Ponta Alegre Due religiose tra gli indios
Come gli indios educano i figli Il Purantin L’ingozzamento di "donna mulatta" Il guanto e il diadema della Tucandeira
La prima evangelizzazione in... latino Un vecchio pescatore Il cane "Fin Quando" Un animaletto chiamato potò
Meraviglie di un viaggio in canoa Un ubriaco in chiesa Un angelo cantore Ila e Mauro
La tucandeira dei satere-maué La danza del Maen Maen La realtà terrena e celeste Un ombrellino colorato per Lenita
Grazie piaì La campana e i satere-maué Svegliati Agostino! Il giorno dei defunti e l'aeroplano
Una collana per il papa Un aeroplano nel campo della manioca La casa del Sole e della Luna Mammina del cielo
Nessuno è felice da solo

PRESENTAZIONE

Che cosa fa Dio in Amazzonia:
lo Spirito aleggia sulle acque,
accarezza le foreste...
e ama i suoi figli indios e caboclos.

Questa raccolta di episodi di vita missionaria è tratta da un programma in onda ogni giorno a Radio Alvorada della diocesi di Parintins, iniziato nel 1992 e replicato più volte a grande richiesta degli ascoltatori.
Tradotti in italiano a viva voce dall'autore stesso e trascritti, questi racconti conservano l'immediatezza della lingua parlata.
Sicuro di fare un servizio agli amici di p. Enrico che "chiedono notizie" e a quanti hanno a cuore la missione della Chiesa universale, offro volentieri questa raccolta per far conoscere l'opera dei nostri missionari, perché conoscendola la apprezziamo, e apprezzandola la imitiamo e sosteniamo.
È, per così dire, un annuncio "trasversale" del vangelo che se riesce fecondo sulle vie fluviali dell'Amazzonia brasiliana, potrà essere altrettanto valido sulle strade della nostra terra lodigiana e di altre terre.

don Abele Uggè

Cari amici, per mezzo di queste piccole riflessioni quotidiane ho cercato di annunciarvi che Gesù Cristo è ancora in mezzo a noi.
Egli è presente giorno per giorno nei piccoli fatti della nostra vita.

P. ENRICO

 

 Top  LA VECCHIA VERONICA... E UN FETICCIO IN CANOA

Vorrei ringraziare Dio per le persone semplici e buone che lasciano segni profondi e sanno diffondere simpatia e amore nella nostra vita. Una di queste persone l'ho conosciuta nei primi anni della mia esperienza missionaria insieme a p. Mario Pasqua lotto, dal 1999 Vescovo ausiliare a Manaus, e a p. Vittorio Giurin, oggi defunto, nella parrocchia di Barreirinha, Amazonas, Brasile.

Nell'anno 1973 eravamo tutti e tre giovani missionari con poco più di trent'anni a testa, e ci trovammo a lavorare insieme per alcuni mesi nell'attività pastorale missionaria in Barreirinha.

In quel tempo c'era una signora anziana chiamata la "vecchia Veronica". Era una donna in età avanzata ma ancora piena di energia. Aveva una casa e un terreno non lontano dalla parrocchia, sulla sponda opposta del fiume Parana do Ramos, che passa davanti al paese.

Viveva praticamente da sola coltivando la terra a manioca, verdure e alberi da frutta, e non le mancava un discreto allevamento di animali domestici. Quando era più giovane aveva anche del bestiame e alcuni anni prima, quando p. Sante Cortese stava costruendo la prima chiesa in muratura, aveva offerto un bue da traino.

Donna saggia, estroversa e imprevedibile.

Ogni sabato veniva remando da sola in canoa e raggiungeva il porto vicino alla casa dei padri in parrocchia. Veniva a farci visita, e ci portava qualche frutto o altri prodotti del suo orto. Ancora adesso non dimentico le buonissime angurie che ci offriva. Quello che più ci piaceva era la semplicità con cui ci consegnava i regali e iniziava a conversare. E per di più ci considerava suoi parenti. Infatti chiamava tranquillamente p. Mario e il sottoscritto suoi figli e p. Vittorio suo nipote. Voleva sapere come stavamo in salute e com'era andata durante la settimana.

La visita della "vecchia Veronica" non era lunga. Donna intelligente e discreta, capiva !'importanza di un piccolo gesto di amicizia e di un poco di calore umano per tre sacerdoti, ancora giovani, che avevano lasciato tutto per dedicarsi alle missioni. Nel momento difficile dell'adattamento e dell'inserimento nel nuovo ambiente, le visite e l'atteggiamento della "vecchia Veronica" furono sempre per noi missionari come un raggio di luce e un simbolo della bontà accogliente del popolo amazzonico.

Gli anni passavano e la "vecchia Veronica" era diventata più debole, quasi sempre malaticcia, e faceva fatica a spostarsi da sola. Cercammo di convincerla a stabilirsi in paese, dove i parrocchiani le avevano preparato una casetta e l'avrebbero assistita. Ma Veronica era molto legata alle piantagioni e alla vita contadina e non voleva trasferirsi in paese.

Le sue visite divennero sempre più rare. Andavamo noi a trovarla a casa sua, dove viveva con sempre maggiore difficoltà. Bisognava trasferirla a Barreirinha, ma come fare? All'improvviso successe l'imprevedibile.

Un bel giorno la "vecchia Veronica" si presentò nella casa dei Padri e chiese di parlare con il falegname che stava lavorando in parrocchia. Veronica raccontò che aveva fatto un sogno in cui la Santissima Trinità l'aveva avvertita che tutti i suo mali erano causati da un feticcio nascosto da qualcuno nella poppa della sua canoa. Per la vecchietta la soluzione era chiedere al falegname di segare la poppa.

Riuscimmo a convincere la "vecchia Veronica" a rimandare il lavoro del falegname al giorno seguente. La notte porta buoni consigli e così a p. Mario, che la vecchia considerava il suo figlio più anziano, venne un'idea. TI mattino seguente raccontò a Veronica che anche lui aveva fatto un sogno in cui la Madonna del Buon Soccorso, patrona della parrocchia, gli aveva rivelato che il feticcio della canoa sarebbe scomparso soltanto a una condizione: lasciare la canoa per un mese nel porticciolo ben davanti alla chiesa. La "vecchia Veronica" si convinse e così riuscimmo a tenerla in paese dove visse ancora per vari anni.

"Grazie Signore per tutte le Veroniche che sono le nostre nonne, mamme, sorelle, spose e figlie che discrete, silenziose e pazienti con amore ravvivano il cammino della nostra vita".

 

Top   "PADRE, SONO QUARANT'ANNI CHE L’ASPETTO"

Ogni essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Dio ci è sempre vicino; la sofferenza, il male che colpiscono il corpo e lo spirito delle persone possono deturpare e ferire l'immagine di Dio che è in noi, ma non possono distruggerla.

Ho trentadue anni di sacerdozio, quasi tutti trascorsi lavorando come missionario all'interno della diocesi di Parintins, nello Stato dell'Amazonas in Brasile. Sono un missionario itinerante in visita ai villaggi dell'area indigena degli indios satere-maué e alle comunità dei meticci (caboclos) dell'interno.

Quello che più ha inciso sulla mia vita di sacerdote è stato il manifestarsi della presenza di Dio attraverso i sacramenti e l'aiuto che Egli da a chi ha fede e fiducia in lui. Eccone un esempio.

In uno dei primi viaggi sul fiume Andira nella parrocchia di Barreirinha, ritornavo con il battello dopo aver visitato alcune comunità dell'Andira inferiore. D'improvviso il motore del battello si blocca; con l'aiutante che mi accompagna cerchiamo di capire cosa è successo. Apparentemente tutto è in ordine, ma il motore non funziona più. A poco a poco il vento prende a spingere il battello verso un'isola che si trovava poco distante da noi. Cerchiamo varie volte di mettere in moto il motore, ma niente da fare. Il battello spinto dal vento arriva alla sponda dell'isola, così che posso legare la cima di prua a un ramo sporgente. Pensavo che quell'isola fosse deserta, quando davanti a me scorgo un piccolo sentiero in mezzo alla vegetazione. Dico all'aiutante di tentare ancora ad avviare il motore, poi scendo dalla barca e mi incammino per il sentiero. Sorprendentemente, dopo alcune decine di metri il sentiero si allarga e appare una casa di terra e paglia. Attorno un terreno ben pulito con varie piante da frutta. Batto le mani e chiedo se c'è qualcuno. Silenzio. La porta della casa era socchiusa. Rimango immobile e scruto all'interno per vedere se c'è qualche segno di vita. In quel momento sento una voce fioca ma molto chiara che dice:

- Padre, può entrare.

Entro e scorgo in un'amaca una vecchia malata che alza un braccio e mi indica un piccolo sedile vicino a lei.

- Siediti, padre, è da quarant'anni che aspetto questo momento.

Rimango sorpreso. Quella vecchia malata mi racconta che quarant'anni prima aveva fatto una promessa, aveva chiesto a Dio di poter avere un sacerdote ad assisterla in punto di morte. Era rimasta vedova molto presto e aveva sofferto molto per le calunnie dei parenti. Non ricambiando il male ricevuto, aveva educato i suoi figli e i loro; tutto questo offriva a Dio nella speranza di vedere esaudito il suo desiderio di incontrare un sacerdote prima di morire.

La donna si confessa, felice e con il volto sereno, una vera immagine di Dio riflessa in un corpo provato dalla sofferenza e dalla vecchiaia. Mi congeda dicendo:

- Padre, ora sono felice, Dio può venirmi a prendere. Adesso chiederò a mio nipote che sta per arrivare di accompagnarla al battello.

Rispondo:

- Ho il motore del battello in panne, dovrò chiedere a suo nipote di andare con la canoa a cercare aiuto.

In quel momento appare un ragazzino sulla soglia di casa e la vecchia gli dice:

- Accompagna il padre al battello.

Seguo il ragazzo fino al battello. Là trovo l'aiutante bagnato di sudore e stanco morto dopo tanti tentativi andati a vuoto. Senza molta speranza prendo a mia volta la manovella per un ultimo tentativo e con mia grande sorpresa il motore si accende al primo colpo. L’aiutante mi guarda come se fosse stato un miracolo.

- Non meravigliarti, - gli dico - sembra proprio che sia stato il Signore a mandarci su quest'isola, poi ti spiegherò.

Pochi giorni dopo seppi che la vecchia era morta.

"Signore mio Dio, tu concedi misericordia, onore e gioia a chi cammina nella tua volontà. Beato l'uomo che ha fiducia in te, Signore, Dio dell'universo!" (Salmo 83, 12b-13).

 

 Top  LA CASA SENZA... JACARÉ

Per noi missionari che arriviamo dall'Europa in Amazzonia, i primi tempi di vita sono sempre pieni di fatti curiosi e persino faceti, che presi con buon umore rendono la vita più allegra.

Era il mese di maggio, fiumi in piena, tempo di pioggia. Arrivai nella comunità chiamata Marinheiro della parrocchia di Barreirinha sul fiume Parami do Limao. La cappella innalzata su palafitte era di legno, il pavimento era nuovo, ben pulito; e una scala di accesso saliva alla porta principale. La gente all' entrata lasciava fuori sandali e ciabatte sporchi di fango. Era una sera molto bella, numerosa la partecipazione alle preghiere, ai canti e alle confessioni. Tutto si concluse con la proiezione di un film per bambini. Alla fine il meritato riposo nella casa del capo della comunità. Anche la casa era di legno, ma a quel tempo il tetto era ancora di paglia. Prima di legare l'amaca per dormire, la signora di casa mi avvertì:

- Padre, come puoi vedere, qui non c'è il jacaré quindi bisogna premunirsi in caso di pioggia.

lo ero alle prime esperienze amazzoniche e l'unico significato di jacaré che ricordavo nella lingua portoghese era il pericoloso coccodrillo d'acqua che tutti ben conoscono. Pensai: "Meglio così, con tutta l'acqua che c'è qua intorno, almeno non ci saranno i coccodrilli a preoccuparmi e a farmi star sveglio tutta la notte..".

Così mi sistemai sull'amaca e presi sonno.

Dopo la mezzanotte, quando il sonno aveva ormai

vinto tutti gli abitanti della casa, venne una pioggia equatoriale molto intensa. Quando mi svegliai mi sembrava di essere sotto una doccia, tanta era l'acqua che mi cadeva addosso. Così passai il resto della notte spostando e legando l'amaca nei quattro angoli della stanza a seconda del girare del vento e della pioggia. Tra un tuono e l'altro e il fragore della pioggia ogni tanto sentivo la voce della donna di casa che nell' altra stanza, con il marito e i figli, ripeteva come un ritornello:

- È proprio così, non c'è il coccodrillo sulla nostra casa, bisogna metterci il coccodrillo.

A quel punto capii finalmente qual era il tipo di coccodrillo a cui la donna si riferiva: il jacaré è la copertura del tetto, fatta di foglie di una palma molto resistente che ha in effetti la forma del dorso lungo e affusolato di un coccodrillo.

Prima dell'alba la pioggia finì e apparvero le stelle e una bellissima luna che potevo contemplare attraverso il buco sulla sommità del tetto. Riuscii ad addormentarmi. Al mattino presto fui svegliato dal tipico tintinnare del cucchiaio rimescolato nella pentola del caffé caldo. Sembra la chiamata di una campanella; si sente prima quel suono e poi silenzio; è il momento in cui le donne provano se il caffé è sufficientemente zuccherato e lo fanno per tre volte di seguito. Al termine di questo rito un bambino di casa venne a chiamarmi:

- Buon giorno padre, c'è il caffé pronto per riprendersi dalla pioggia della notte.

Risposi:

- Buon giorno, piccolo, forse oggi legheranno il jacaré sul tetto?

E lui:

- Sì, padre, mio padre sta già preparando il jacaré da mettere sul tetto della casa.

"Siate felici con chi è nella gioia. Piangete con chi piange. Andate d'accordo tra di voi. Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili. Non vi stimate sapienti da voi stessi!" (Lettera ai Romani 12, 15-16).

 

Top   IL GUARANA DEGLI INDIOS SATERÊ-MAUÉ

Gli indios saterê-maué della regione Tupinambarana dello Stato dell'Amazonas scoprirono il guaraná (paullinia cupana) lo coltivarono e trasmisero alle altre popolazioni il valore e i benefici di questa pianta. I saterê-maué sono convinti che Tupana (Dio) abbia donato agli indios la pianta del guaranà per favorire la loro salute fisica e mentale e in particolare quella dei loro capi.

Il guaranà è chiamato anche tuxáua (capo); la tradizione racconta di un bambino, figlio di un grande capo, ucciso e sepolto nella nuda terra. La madre terra lo fece rinascere sotto forma di arbusto dai frutti portentosi, il guaraná. La madre del bambino era una sciamana dalle arti magiche, e fece conoscere a tutti l'uso e le qualità della pianta che è il simbolo della saggezza e della capacità di governare un popolo o una nazione.

Gli indios più anziani raccontano che dopo aver bevuto la bevanda del guaraná nessuno può dire cose sbagliate o parlare male degli altri. Era lo stesso capo tribù a servirla a tutti coloro che andavano rispettosamente a prenderla.

La bevanda veniva chiamata in lingua indigena wará; la parola si riferisce all'origine della saggezza di coloro che partecipano dei beni di Dio, riconoscendo che tutto quello che abbiamo proviene da lui.

Il wará deve essere bevuto con cuore puro senza pensare o parlare male del prossimo. Questa tradizione che proviene da un popolo della foresta è un grande esempio per noi, perché ci insegna a rivolgerci a Dio e a invocarne l'aiuto e la presenza per poter fare scelte e azioni migliori nella vita. Un popolo "primitivo" ci insegna che i soldi, la salute e il potere talvolta non risolvono tutti i problemi della vita.

Noi cristiani abbiamo nell'Eucarestia la presenza di Gesù Cristo, dalla quale attingiamo sostegno e forza spirituale. Le tradizioni ancestrali degli indios rivivono nel tempo e nello spazio ciò che è avvenuto alle origini; così anche noi, attraverso la fede e i sacramenti, continuiamo a rivivere la presenza di Dio nella nostra vita.

"Lodate il Signore dalla terra, mostri marini e voi tutti abissi del mare. Lodatelo, alberi da frutto e foreste, animali selvatici e domestici, rettili e uccelli dell'aria. Lodatelo, re della terra, lodatelo nazioni tutte, principi e governanti del mondo. Ragazzi e ragazze, vecchi e bambini, lodate tutti il nome del Signore: lui solo è degno di lode, domina il cielo e la terra" (Salmo 148, 7.9-13).

 

Top   COME GLI INDIOS EDUCANO I FIGLI

Ho conosciuto una signora india di nome Maria. È nonna. Ha cresciuto vari figli e nipoti. È una donna di rara intelligenza e memoria. Parla tre idiomi: la lingua portoghese, la lingua della sua tribù saterê-maué e la lingua indigena antica detta nhengatú, comune al gruppo tupi e ritenuta la lingua nazionale. Questa donna india ha un modo particolare di educare i bambini, non li picchia, non si arrabbia, non li sgrida. Parla molto con loro con pazienza e amore, spiega il perché delle cose; racconta loro del passato e del presente. Narra delle origini della foresta, degli animali, della terra e delle persone e di tutte le cose del grande libro della vita. È capace di armonizzare la tenerezza con la fermezza e sa dosare saggiamente il tempo dello svago e il tempo dei doveri.

Un giorno chiesi a Maria come i bambini indigeni vengono educati al rispetto del padre e della madre. Così mi rispose:

- Vede padre, noi abituiamo i nostri figli fin da piccoli a valorizzare e capire il lavoro e il sacrificio che i genitori fanno per sostenere la famiglia; in questo modo i bambini stimano e riconoscono l'amore dei loro genitori. Devono sapere come noi li amiamo. Per questo motivo il bambino fin da piccolo accompagna il padre in certe attività, mentre la bambina è seguita ed educata dalla mamma. Da noi i bambini non possono essere abbandonati a se stessi.

Tra gli indios non manca la severità quando è necessario. Ricordo che nel villaggio di Nazaré sul fiume Marau, durante la preghiera della sera nella cappella, un bambino di poco più di un anno fu lasciato fuori nella piazzetta antistante a piangere stizzito per tutto il tempo. La madre del piccolo non gli prestò la minima attenzione. Finita la funzione liturgica, chiesi alla madre cos' era successo.

- Niente di speciale, - mi rispose - il bambino ha già mangiato e non è ammalato. Sono soltanto capricci, rimarrà lì fino a quando non gli sarà passato il malumore e si sarà rimesso in sesto.

"Chi vuol bene a suo figlio spesso dovrà essere severo con lui, ma alla fine potrà essere contento. Chi sa educare un figlio avrà molte soddisfazioni. Un figlio lasciato a se stesso diventa intrattabile, proprio come un cavallo che non è domato. Se vizi tuo figlio avrai brutte sorprese, e se scherzi con lui più tardi dovrai piangere. Non dargli troppa corda quando è giovane, fallo sgobbare. Educa tuo figlio e cura la sua formazione, per non dover piangere se rovina il tuo buon nome" (Siracide 30,1.2a.8-9.11.13).

 

Top   LA PRIMA EVANGELIZZAZIONE... IN LATINO

Gli indios satere-maué hanno saputo conservare lungo i secoli la propria lingua e cultura, e allo stesso tempo ricevere l'evangelizzazione cattolica.

Hanno sempre rispettato i sacerdoti missionari, considerandoli uomini di Dio con poteri uguali agli sciamani.

Fin dall'inizio dell' evangelizzazione furono utilizzati contemporaneamente la lingua indigena e il latino, lingua che la Chiesa cattolica ha usato nelle liturgie fino agli anni Settanta. Per gli indios satere-maué questo non rappresentò un problema, perché erano già abituati a una lingua arcaica antica parlata solo da alcuni sciamani e da vecchi della tribù. Questa lingua era usata soprattutto per racconti mitologici, preghiere e canti antichi, ed era sconosciuta alla maggior parte della gente.

La lingua arcaica favoriva il senso di mistero e di sacro della religione tradizionale e ben esprimeva il rapporto con Tupana, l'Essere supremo, il dio arcano, inaccessibile, impenetrabile, che incute rispetto e sottomissione alla creatura che scompare davanti a lui.

Nel 1975, durante i miei viaggi nelle comunità indigene, volli raggiungere quella più lontana, chiamata Campo do Mirití. Il villaggio ancora oggi si trova al centro dell'area indigena dei satere-maué. Mi raccontarono che nessuno al villaggio ricordava la visita di un sacerdote in quel luogo. Il vecchio capo, oggi già morto, si chiamava Hortensio e fu felicissimo per l'arrivo del padre missionario.

Per giungere ai villaggi però, dovetti camminare attraverso foresta, radure e fiumiciattoli per due giorni, dopo un viaggio di due giorni in barca a motore.

La sera dell' arrivo chiesi se sapevano qualche preghiera. Fu aperta una cassa e apparvero sei statuette di legno raffiguranti santi antichi, con nastrini e altri ornamenti religiosi. Fu preparato una specie di tavolo, su cui furono disposti una tovaglia da altare e due candele accese. Alcuni uomini si avvicinarono all' altare sul quale avevamo già posto le statuette.

Cominciarono a cantare. Sul momento stentai a credere alle mie orecchie; io stesso pensavo di stare sognando, semincosciente per la stanchezza del viaggio. Ma non era così: udivo l'antico canto gregoriano della Chiesa cattolica in latino, si trattava dell'inizio delle litanie. Nove su dieci di coloro che cantavano conoscevano solo la lingua indigena saterê-maué... ma le mie orecchie udivano il "Deus in adiutorium meum intende" (O Dio vieni in mio aiuto).

La preghiera continuò con tutte le litanie, poi venne il Credo, il Padre nostro, il Rosario con le Ave Maria, tutto cantato. Per più di un'ora e mezza quegli indios continuarono i loro canti con la più sconcertante naturalezza. Quando giunse il momento conclusivo del canto "Sub tuum praesidium confugimus" (Sotto la tua protezione ci rifugiamo), tutti si alzarono e poi si inginocchiarono per la preghiera finale alla madre di Dio.

Non potrò mai dimenticare quel momento: compresi la forza di quel popolo che era riuscito a mantenere per decine di anni la propria fede senza la presenza del sacerdote. I più vecchi poi mi raccontarono che i loro antenati avevano assicurato che se la tribù fosse rimasta unita nella fede e nella preghiera, i missionari non l'avrebbero mai abbandonata.

Quella mia prima visita fu l'inizio di una serie di incontri. Gli indios costruirono una cappella dedicata a Gesù Bambino e dopo due anni battezzai ben settantasei persone. Gli adulti che venivano battezzati diventavano a loro volta padrini dei loro bambini.

La cappella era diventata troppo piccola per tutta quella gente, così i battesimi furono amministrati all'ombra di un grande e bellissimo albero di mango.

Il buon Dio e la Madre celeste avevano premiato e benedetto la fede e la perseveranza di quel popolo.

"Ti ringrazio. Padre, Signore del cielo e della terra. Ti ringrazio perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai fatte conoscere ai piccoli" (Matteo 11,25).

 

Top  MERAVIGLIE DI UN VIAGGIO IN CANOA

Varie volte mi sono recato a visitare la comunità indigena di Campo do Mirití, affrontando sempre lunghe giornate di viaggio in battello e marce forzate nella foresta. Dopo uno dei primi incontri, terminata la visita alla comunità, con il tuxdua (capovillaggio) Hortensio e un altro indio di nome Marco, ripresi il viaggio in canoa lungo il fiume Mirití fino alla confluenza con il fiume Marau, per raggiungere un'altro villaggio di saterê-maué. In quella zona, densa di foresta, il fiume Mirití è molto stretto e si può navigare solo con la canoa o con un piccolo motore fuoribordo. Il letto del fiume è pieno di tronchi e rami di alberi caduti dalle sponde. Le anse del fiume sono molto strette, e la foresta a galleria copre la maggior parte del percorso; talvolta sono necessari il macete e la scure per aprire un varco alla canoa ostacolata da rami, liane e tronchi semisommersi a pelo d'acqua.

Il viaggio con il tuxauá Hortensio e Marco iniziò alle sei del mattino per terminare alle sei di sera. Marco stava alla prua della canoa, Hortensio a poppa e il sottoscritto nel mezzo. Siccome percorrevamo il fiume con il favore della corrente, non era necessario fare molto sforzo con i remi, e così i due indios cominciarono tranquillamente a chiacchierare. Avevano continuamente qualcosa da ricordare. Conoscevano il nome di ogni piccolo affluente che incrociavamo e persino dei luoghi dove c'erano capanni di pescatori o cacciatori lungo le sponde. Nei vari punti del fiume raccontavano di aver catturato selvaggina o piantato manioca. Parlavano degli animali della foresta che avevano catturato e passavano in rassegna le storie mitologiche del bradipo, della tartaruga, del pesce tra ira , del cinghiale, della scimmia guariba, dell'uccello inambù, della lontra...

Il sottoscritto ascoltava in silenzio, meditando sui mezzi di trasporto dell' era moderna, molto più rapidi, ma sicuramente meno adatti a indurre riflessioni o preghiere. Ogni tanto passavamo qualche attimo di spavento quando la canoa sobbalzava pericolosamente sopra qualche tronco invisibile a pochi centimetri sott' acqua.

Quello che più mi stupiva era il fatto che i miei due accompagnatori osservavano spesso con la testa all'insù le cime degli alberi, nella speranza di individuare qualche animale commestibile facile da catturare o nidi di pappagalli. In quei momenti la canoa sfuggiva un poco alloro controllo.

Durante il viaggio non mancarono incontri suggestivi: scivolammo a lato di un grosso sucurijú (anaconda), tutto arrotolato su se stesso e gonfio di cibo, che faceva bella mostra di sé su un grande tronco trasversale sul fiume. Apparve anche un certo animaletto chiamato pseudo-coccodrillo, che si tuffò in acqua da un ramo quando si accorse di noi. Mi venne la pelle d'oca quando il tuxauá Hortensio mi indicò il velenosissimo serpente surucucu di fuoco (lachesis muta), dal colore rosso scuro, che scivolava su un ramo davanti a noi. Più in là anche una jararaca (cophias javaraca), altro serpente velenoso, attraversò il fiume davanti alla prua della nostra canoa; indispettito dall'approssimarsi dell'imbarcazione cambiò d'improvviso direzione e ci venne incontro minaccioso con la testa alta fuori dall'acqua. Marco, senza scomporsi un attimo, gli affibbiò un colpo di remo e il serpente scomparve sott'acqua. Alcuni passaggi stretti tra un'ansa e l'altra del fiume accorciarono un po' il nostro viaggio, ma contribuirono a farmi conoscere certe formiche, ragnetti e altri insetti che banchettarono sulla pelle del mio collo e delle mie braccia. Grandi palme chiamate miritiseiros (mauritia flexuosa) dominavano lunghi tratti delle sponde del fiume. Hortensio mi spiegò che Tupana (Dio) le aveva messe lì per proteggere e assistere ogni tipo di animale di terra e di acqua.

Arrivammo all'imbrunire. Quando mi stesi sull'amaca, continuavo ad avvertire l' ondeggiamento della canoa. Intanto la notte della foresta tropicale cominciava a riempirsi del gracidare dei rospi e delle rane e degli stridii e fischi degli animali notturni. Mentre elevavo a Dio la mia preghiera di ringraziamento per il buon esito del viaggio, pensai al mistero della natura, della foresta, dei fiumi, della terra e del cielo. Pensai che l'essere umano è fragile, piccolo e impotente davanti alle forze della natura, ma allo stesso tempo vale più di tutto il creato perché è immagine e somiglianza viva di Dio, e il destino della creatura umana è l'eternità.

 

"Chi è l'uomo, Signore, perché tu ne abbia cura? Chi è mai perché tu pensi a lui?
L'uomo è soltanto un soffio; i suoi giorni un'ombra che passa
" (Salmo 143, 3-4).

Nel Vangelo di San Giovanni, Gesù eleva ancora di più la dignità di chi crede in Lui: "Voi siete miei amici se fate quello che io vi comando. Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto sapere tutto quello che ho udito dal Padre" (Salmo 143, 15,14-15b).

 

Top   LA TUCANDEIRA DEI SATERÈ-MAUÉ

Gli indios satere-maué dei fiumi Andini e Marau dell'Amazzonia brasiliana hanno un rituale speciale chiamato la danza della tucandeira. La tucandeira (dinoponera grandis) è un tipo di formica gigante, lunga circa due centimetri, con un pungiglione sull'addome e ricoperta da una lanugine color rosso-scuro. La sua puntura è molto dolorosa, provoca febbre e gonfiore. Gli indios raccontano che all' origine la tribù ricevette dal Grande Armadillo il rituale della tucandeira. La narrazione mitologica del rituale è fatta principalmente con canti ricchi di termini arcaici relativi a nomi di animali, pesci ed eroi mitologici. Questi racconti sono la forza e la vita della tribù. La danza della tucandeira consiste nel lasciarsi pungere da queste formiche catturate vive ed imprigionate nelle maglie di guanti di paglia. Ho chiesto agli anziani il significato di questo rito, ed essi mi hanno spiegato che la tucandeira è stata data per la salute degli indios, per vincere la febbre, i reumatismi, i dolori. La puntura della formica inietta un antidoto contro le malattie. Questo è l'aspetto terapeutico del rituale.

La tucandeira è anche l'iniziazione maschile; è una prova di forza e coraggio per il ragazzo che sta per passare allo stato adulto.

L’indio, attraverso il rituale, conosce la sua origine, le leggi e i costumi della tribù, scopre quindi la sua identità tribale e la sua appartenenza a un determinato gruppo o clan. Deve fare il rituale almeno venti volte nella vita.

Tutta la gente partecipa al rito, e osserva come i candidati lo affrontano. È un momento importante per conoscersi, incontrasi, in vista anche di futuri matrimoni.

Spesso i più anziani chiedono che sia celebrata la festa della tucandeira quando i più giovani vogliono conoscere i racconti mitologici e la storia della tribù.

La tucandeira è anche un rito propiziatorio, attraverso il quale !'indio può diventare un buon pescatore, cacciatore, avere fortuna nella vita, nel lavoro, ed essere un uomo forte e coraggioso.

La gente si riunisce molto volentieri per il rituale della tucandeira, che oltre all'aspetto festivo e ludico è anche l'occasione per rievocare il mito cosmogonico dell'origine delle stelle, del sole, della luna, dell'acqua, dell'aria e di tutti gli esseri viventi. Ancora oggi questo rituale continua a essere seguito tra il popolo dei saterê-maué, nelle case e nei villaggi che costeggiano i fiumi Marau, Andirá, Mirití, Majurú e Urupadí.

Ogni popolo ha il suo modo di vivere e di celebrare i momenti più importanti dell'esistenza. L’insieme di queste espressioni sono la sua particolare cultura.

"Lodate il Signore, nazioni tutte, popoli tutti, cantate la sua lode. È forte il suo amore per noi, la sua fedeltà dura per sempre" (Salmo 116,1-2).

 

Top   GRAZIE PIA!

Kuruatuba è un piccolo villaggio di indios localizzato sul fiume Majurú, nel comune di Maués, Stato dell'Amazonas del Brasile.

Per arrivare a Kuruatuba ci vogliono due giornate di viaggio partendo da Maués. Il primo giorno si viaggia con il battello a motore mentre il secondo giorno bisogna risalire il fiume Majurú in canoa, perché per lunghi tratti è stretto e ricoperto dalla vegetazione della foresta.

Nelle mie visite a Kuruatuba utilizzo un piccolo motore fuoribordo che installo sulla canoa di alluminio. Molto spesso però bisogna spegnerlo e destreggiarsi per evitare grossi tronchi e rami che ostruiscono il passaggio.

In uno di questi viaggi mi accompagnavano i due fedeli aiutanti, !'indio Paulo e il caboclo Birico, che con machete, scure e sega si davano da fare per aprire un varco alla canoa.

Il viaggio era iniziato alle sei del mattino, per poter arrivare a Kuruatuba verso le cinque del pomeriggio. La pioggia ci aveva accompagnato per tutta la giornata e spesso ci aveva costretto a fermarci per buttare fuori l'acqua dalla canoa.

Arrivammo al villaggio ben più tardi del previsto, inzuppati e stanchi ma contenti perché avevamo a disposizione ancora un' ora di luce.

Tutta la gente di Kuruatuba era venuta a riceverci sulla sponda del fiume. Mentre accostavo la canoa alla riva, sollevai il motore fuoribordo dall'acqua e misi un piede in acqua. Paulo mi gridò:

- Attento, padre!

Proprio in quel momento mi accorsi che avevo messo il piede su un piccolo tronco di palma detta marajazeiro (pirenoglyphis marajà), che si trovava a pelo d'acqua e che era tutto irto di lunghe spine. Cercai di spostare il piede ma non fu più possibile: ero già con il peso del corpo sul piede, così non potei evitare di conficcarmi una dozzina di spine.

Poco più tardi, dopo essermi asciugato e sistemato, mi sedetti su un tronco per osservare meglio la situazione. Avevo appena appoggiato il piede sul tronco, quando fui attorniato da un gruppo di bambini, curiosi di scoprire cosa mi era successo.

Estrassi dallo zaino una lametta da barba, nuova e lucente, e chiesi ai bambini chi di loro fosse il più bravo a togliere le spine. Una decina di manine mi indicarono una ragazzina di undici o dodici anni.

Così iniziò l'estrazione. Il piedone del padre appoggiato sul tronco e una corona di testoline di bambini attorno che osservava con curiosità e forse anche con un po' di preoccupazione.

La piccola india, tutta intenta e sicura, incideva con la lametta la superficie della pelle vicino alla spina e poi la toglieva con le dita. .

Osservavo i bambini: ce n'erano di tutte le età, maschietti e femminucce. Avevano dei visi simpatici, rotondetti, color cioccolato. I loro occhi erano scuri e vivaci e il loro sguardo attento si spostava dal taglio della lametta al viso del padre e viceversa.

Sorridevo ai bambini e resistevo con tutte le mie forze anche perché non potevo far trasparire nessun segno di dolore. Alle volte, quando la lametta penètrava un po' più in profondità, nascondevo il dolore facendo delle smorfie o canticchiando qualche musica che loro conoscevano.

La pazienza e l'abilità della bambina erano ammirevoli, infatti dopo poco più di mezz' ora tutto era finito e consegnandomi la lametta la bambina mi disse:

- Toran paí. (Ho finito, padre).

Il volto della fanciullina era imperlato di goccioline di sudore e mi sorrideva. Le risposi:

- Waku piaí (Ti ringrazio, ragazzina).

Alla sera in cappella, durante la liturgia, osservavo i bambini che cantavano felici e contenti, e pensai che senza il loro aiuto il mio piede sarebbe rimasto gonfio e ancora pieno di spine.

"Cristo è come un corpo che ha molte parti. Tutte le parti. anche se sono molte. formano un unico corpo... Se una parte soffre. tutte le altre soffrono con lei. e se una parte è onorata. tutte le altre si rallegrano con lei. Voi siete il corpo di Cristo. e ciascuno di voi ne fa parte" (Prima Lettera ai Corinzi 12.12.2627).

 

Top   UNA COLLANA PER IL PAPA

Mons. Gianni Risatti visitò insieme a me la comunità indigena saterê-maué di Campo do Mirití. Tutta la gente, insieme al capo Armindo, ci fece una delle migliori accoglienze. La sera si susseguirono la novena, la preghiera, la predica del vescovo, poi i canti e le orazioni in lingua indigena. Era una notte stellata molto bella e avevamo portato con noi anche un piccolo generatore elettrico che illuminava la chiesa e le case vicine, una grande gioia per la gente dei villaggi che non hanno la luce elettrica. Proiettai anche un film e i bambini si divertirono molto a vedere quelle figure che si muovevano e parlavano.

Il giorno dopo, le confessioni, la messa, i battesimi. Il capo Armindo ci invitò a un incontro con tutta la comunità. In questa riunione gli indios ci parlarono del loro lavoro, di quello che facevano nella comunità, della situazione sanitaria, della scuola e chiesero al vescovo di garantire la presenza dei missionari della sua diocesi. Sapevano di abitare molto lontano ma sapevano anche che grazie al padre missionario avevano potuto costruire la cappella, il dispensario, la scuola, e per loro tutto questo aveva significato una grande forza.

Mons. Risatti rispose che da quando erano state fondate la prelazia e la diocesi, gli indios erano sempre stati visitati dai padri, ma occorreva pregare Dio per le vocazioni e la salute dei missionari, perché potessero continuare il loro lavoro tra di loro. Mons. Risatti disse anche che il mese successivo sarebbe andato a Roma a visitare il papa Giovanni Paolo II insieme a tutti gli altri vescovi dell' Amazzonia e avrebbe parlato al papa degli indios e in particolare dei satere-maué. Nel sentir parlare del papa, il volto del tuxauá Armindo si illuminò di un particolare sorriso. Si alzò ed uscì immediatamente per ritornare di lì a poco. Chiese di parlare, si avvicinò a mons. Gianni e gli mostrò un cartoncino sgualcito e consunto dal tempo e disse:

- Vescovo Gianni, ho tenuto questo biglietto in ricordo dell'incontro che il papa Giovanni Paolo II ebbe con gli indios a Manaus nel luglio 1980. Dieci anni fa anch'io ero là, insieme a tutti gli altri capi tribù davanti al Papa e ho rappresentato gli indios satere-maué. Quando lei arriverà a Roma porti il nostro saluto al Papa.

Mentre parlava, il tuxauá Armindo estrasse dalla tasca una bellissima collana dei satere-maué e la consegnò a mons. Risatti dicendo:

- Porti questa collana al papa in segno di gratitudine e in ricordo della sua visita e perché continui a mandare i missionari qui, in mezzo a noi indios.

Mons. Gianni ricevette la collana per il papa e dopo poche settimane la consegnò personalmente al santo padre Giovanni Paolo II nella visita ad limina che fece insieme con gli altri vescovi dell'Amazzonia.

Nell'archivio della diocesi di Parintins è oggi conservata una lettera del segretario del papa che manifesta la gratitudine e la commozione del pontefice per il gesto semplice e nobile di un tuxauá dei Tupinambarana.

"Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Matteo 16,17-18).