LETTURE PATRISTICHE
Centro Azione liturgica - Roma - 1971 -
EDIZIONI MESSAGGERO DI S. ANTONIO - PADOVA 1972
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PREGHIERA: Adorazione, Lode, Azione di grazie, Intercessione |
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FESTE DI CRISTO: Sacro Cuore" Trasfigurazione, Santa Croce, Cristo Re |
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Sant'Agostino *
S. Agostino (354-430), vescovo d'Ippona in Africa, romano per cultura, pensatore di genio, ci ha lasciato un'opera monumentale, di inestimabile valore. Filosofo, teologo, pastore d'anime e grande spirituale, è il Dottore della grazia e, più ancora, della carità.
Consideriamo quanto l'apostolo Giovanni ci raccomandi l'amore fraterno: Chi ama suo fratello - dice - dimora nella luce e in lui non c'è occasione di caduta (1 Gv. 2, 10). E' evidente che egli pone la perfezione della giustizia nell'amore dei fratelli, perché chi non ha in sé occasione di caduta, senza dubbio è perfetto. E tuttavia sembra che l'Apostolo passi sotto silenzio l'amore di Dio, cosa che non farebbe mai se, nella carità fraterna stessa, non volesse intendere Dio. Nella stessa lettera infatti, poco dopo questo passo,in maniera chiarissima dice così: Carissimi, amiamoci l'un l'altro perché la carità è da Dio. E chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1 Gv. 4, 7-8). Questo contesto dichiara con sufficiente chiarezza che questa stessa carità fraterna - perché carità fraterna è quella che fa sì che ci amiamo gli uni gli altri - non solo proviene da Dio, ma è Dio stesso. E chi ce lo dice è un testimone autorevole.
Perciò quando amiamo nostro fratello nella carità, amiamo nostro fratello in Dio, perché non è possibile che non amiamo anzitutto quella carità, per mezzo della quale amiamo nostro fratello. Deduciamo di conseguenza che questi due precetti non possono esistere uno senza l'altro. Poiché infatti Dio è amore, certamente ama Dio chi ama l'amore e - d'altra parte - chi ama suo fratello ama necessariamente "amore. Per questo poco dopo afferma: Non può amare Dio che non vede, chi non ama suo fratello che vede (1 Gv. 4, 20): il motivo per cui non gli riesce di veder Dio è la mancanza d'amore verso suo fratello. In effetti chi non ama suo fratello, non è nell'amore e chi non è nell'amore, non è in Dio, perché Dio è amore.
E ancora: chi non è in Dio, non è nella luce, perché Dio è luce e in lui non vi sono tenebre (1 Gv. 1, 5). Cosa c'è di strano se uno che non è nella luce, non vede la luce, cioè non vede Dio, dal momento che si trova nelle tenebre? Vede suo fratello semplicemente con lo sguardo umano, con cui non è possibile vedere Dio. Se però questo fratello che vede con occhio umano, l'amasse con una carità spirituale, allora vedrebbe Dio, che è la stessa carità, con quello sguardo interiore che permette di vederlo. Quindi chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non può vedere, proprio perché Dio è amore e questo amore manca a colui che non ama suo fratello? E non poniamoci più il problema di quanto amore dobbiamo dare al fratello e quanto a Dio: a Dio incomparabilmente più che a noi, al fratello invece quanto ne diamo a noi stessi. Noi poi amiamo tanto più noi stessi, quanto più amiamo Dio. Amiamo Dio e il prossimo di una sola e medesima carità: ma Dio lo amiamo per Lui stesso, noi e il prossimo per Dio.
* De Trinitate, VIII, 12. - PL 42, 958B-959A.
Isacco della Stella *
Isacco della Stella nacque in Gran Bretagna. Teologo e filosofo, è uno scrittore spirituale cistercense di prim'ordine. Andò a studiare in Francia con i più celebri maestri della sua epoca. In seguito entrò nell'abbazia della Stella nel Poitou e ne divenne Abate nel 1147. Circa vent'anni dopo, a capo di un piccolo gruppo, stabilì la vita monastica nell'isola di Re, al largo di La Rochelle. Nei suoi sermoni, Isacco unisce armoniosamente la sostanza teologica della tradizione patristica, le nuove esigenze di un rigoroso approfondimento intellettuale e la sensibilità umana caratteristica della scuola cistercense del XII secolo. Alla piccola fraternità che vive duramente nella solitudine dell'isola di Re, Isacco indirizza questa esortazione sul primato della carità.
Perché, fratelli, non siamo più attenti nel cercare le occasioni di salvezza gli uni per gli altri, in modo da poterei aiutare meglio quando ci sembra più necessario e non siamo solleciti nel portare vicendevolmente i pesi dei fratelli? A questo ci esorta l'Apostolo quando dioe: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). E altrove: Sopportatevi, dice, vicendevolmente nella carità (Ef. 4, 2). Questa è sicuramente la legge di Cristo.
Quando scopro nel mio fratello qualche cosa di incorreggibile, sia come infermità fisiche che morali, perché non lo sopporto pazientemente, non lo consolo volentieri, secondo quel che dice la Scrittura: I loro figli saranno portati in braccio e consolati sulle ginocchia (Is. 66, 12)? Mi manca forse questa carità che tutto soffre, che è paziente nel sopportare e benigna nell'amare (cfr. I Cor. 13, 7)? Questa è la legge di Cristo. Egli ha veramente preso su di sé le nostre sofferenze nella sua Passione e, nella sua compassione, ha portato i nostri dolori (Is. 53, 4), amando quelli che portava e portando quelli che amava. Chi invece si mostra aggressivo verso un fratello nel bisogno, chi insidia la sua debolezza - di qualunque genere essa sia - si sottomette senza alcun dubbio alla legge del demonio e la compie. Compatiamoci invece a vicenda, amiamo i nostri fratelli, sopportiamone le debolezze e perseguitiamone i vizi... Ogni genere di vita, infatti, che segue meglio la carità di Dio e, per questo motivo, ricerca più sinceramente l'amore del prossimo, qualunque siano le sue osservanze o consuetudini, è più accetto a Dio. E' in ragione di questa carità che tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. E' la carità il principio dal quale e il fine verso il quale tutto deve essere diretto. Non c'è nulla di colpevole in ciò che viene fatto veramente a vantaggio e secondo lo spirito della carità. Si degni di accordarcelo Colui al quale non possiamo piacere senza la carità e privi della quale nulla possiamo, Lui che vive e regna, Dio, nei secoli dei secoli. Amen.
* Sermo XXXI, circa finem: PL 194, 1792-1793.
Thomas Merton *
Il grande scrittore spirituale americano, Thomas Merton (19151968), fervente convertito, si fece monaco cistercense nel 1941. Nel testo che segue, Merton ci porta, con tutto il realismo della sua fede, fino al centro del messaggio cristiano: il Cristo è la prima e l'ultima parola della storia degli uomini e di ogni uomo.
La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col. 3, 3). La scoperta di noi stessi in Dio, e di Dio in noi, attraverso una carità che in Dio trova, con noi stessi, anche tutti gli altri uomini, proprio per questo è la scoperta non di noi stessi ma del Cristo. E' prima di tutto la presa di coscienza che non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal. 2, 20), ed è, in secondo luogo, la penetrazione di quel tremendo mistero che San Paolo delinea audacemente - e oscuramente - nelle sue grandi epistole: il mistero della ricapitolazione, del convergere di tutto nel Cristo. E' il vedere il mondo - il suo principio e la sua fine, - nel Cristo: veder scaturire tutte le cose da Dio nel «Logos» che si incarna e scende fin nelle ultime profondità della Sua creazione e riconduce tutto a sé per poi restituire tutto al Padre alla fine del tempo. Trovare «noi stessi» allora, vuoi dire non solo trovare la nostra anima così povera, limitata, insicura; ma trovare la potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dai morti e ci ha coedificati in Lui per divenire abitazione di Dio nello Spirito (Ef. 2, 22).
Questa scoperta di Cristo non è affatto autentica se si limita ad essere una fuga da noi stessi. Non deve essere un'evasione, ma un cammino verso la pienezza. Non riuscirò mai a scoprire Dio in me e me stesso in Lui se non ho il coraggio di guardarmi in faccia così come sono esattamente, con tutti i miei limiti e di accettare gli altri così come sono, con i loro limiti. La risposta religiosa non è religiosa se non è pienamente reale. L'evasione è la risposta della superstizione.
Se la si guarda in modo intuitivo, questa questione della salvezza è una cosa semplicissima: ma quando la si analizza, si trasforma in un groviglio di paradossi. Diventiamo noi, solo morendo a noi stessi. Guadagniamo solo quello a cui rinunciamo, e se rinunciamo a tutto guadagniamo tutto. Non possiamo trovare noi stessi dentro di noi, ma solo negli altri, eppure prima di poter andare verso gli altri dobbiamo trovare noi stessi. Se vogliamo veramente prender coscienza di chi siamo, dobbiamo dimenticare noi stessi. Amare gli altri è il modo migliore di amare noi stessi, eppure non possiamo amare gli altri se non amiamo noi stessi, poiché è scritto Amerai il tuo prossimo come te stesso (Mt. 19, 19). Ma se noi ci amiamo in modo sbagliato, diventiamo incapaci di amare chiunque altro. Quando noi non ci amiamo rettamente, in realtà ci odiamo; e se odiamo noi stessi, finiremo inevitabilmente per odiare gli altri. E' vero tuttavia che in un certo senso dobbiamo odiare gli altri e lasciarli, se vogliamo trovare Dio. Gesù ha detto Se qualcuno viene a me e non odia suo padre e sua madre... e la sua vita stessa, non può essere mio discepolo (Lc. 14, 26).
Quanto al nostro «trovare» Dio, è certo che non potremmo neppure cercarlo se non lo avessimo già trovato, e non potremmo trovarlo se Lui non ci avesse già trovato.
* No Man Is an Island, Harcourt, Brace and Company, New York 1955, pp. XV-XVII - Edizione italiana: Garzanti - IV ediz., pp. 13-15.
W4 «CHI È IL MIO PROSSIMO?» (Lc. 10,29)
San Severo d'Antiochia *
Severo fu patriarca di Antiochia dal 512 al 518. L'imperatore Giustiniano I lo depose a motivo della sua opposizione alla formula del Concilio di Calcedonia (451) che affermava che Cristo èuno in due nature. Da allora Severo visse in Egitto, dove morì nel 538. La sua importante opera letteraria è stata pubblicata soltanto in parte. Studi recenti hanno provato che il monofisismo di Severo d'Antiochia deriva più da una confusione di vocabolario che da un errore vero e proprio.
Chi è il mio prossimo? Tutti gli uomini. Leggendo questa bella pagina si comprende meglio la ragione profonda di questa «prossimità»: da un lato ogni uomo ha bisogno di essere sanato perché la natura umana, nella sua indigenza, non sussiste senza l'aiuto degli altri. D'altra parte, l'amore stesso rende ciascuno di noi «prossimo» all'altro.
Fa' questo e vivrai (Lc. 10,28). Quando però il dottore della Legge, prendendo a pretesto il desiderio di istruirsi, interrogò di nuovo Gesù, gli pose questa domanda: "Chi dobbiamo considerare come quel prossimo che la Legge comanda a tutti di amare come se stessi?»
Allora il nostro Salvatore diede questa risposta sotto forma di parabola: «Un uomo andava da una città a un'altra. Assalito dai briganti, fu preso, spogliato dei suoi vestiti e ferito. Era ormai tutto una piaga e giaceva mezzo morto. Lo vide un sacerdote, volse altrove lo sguardo e se ne andò. Anche un levita lo vide, ma non se ne prese cura: anziché commuoversi e provare dolore, non si fermò davanti a questo spettacolo che pure avrebbe dovuto suscitare in lui grandissima compassione. Alla fine un samaritano, che passava per quella strada, si trovò davanti a quell'uomo disteso a terra: non lo guardò solo con gli occhi, ma lo fissò con la preoccupazione misericordiosa del cuore. Inginocchiandosi davanti a lui, curò le sue piaghe con i rimedi convenienti: vi versò sopra vino e olio e le fasciò con amorosa diligenza. Lo mise poi su un asino e lo condusse a un albergo, dove chiese che fosse trattato con grande sollecitudine».
Dimmi ora, dottore della Legge, senza scrutarmi con quello sguardo cattivo, chi è il prossimo per te? Ma per colui che aveva bisogno di essere assistito, chi è mai divenuto il prossimo se non l'uomo che si è dimostrato tale per il suo comportamento? Tu pensi spesso, nella tua ignoranza, che il tuo prossimo sia colui che condivide la tua stessa reli9ione o la tua stessa nazionalità. lo invece dico e definisco come prossimo chi partecipa alla tua stessa natura ed è uomo come te. Come vedi, infatti, colui che se ne andava a testa alta a motivo della sua dignità di sacerdote, e l'altro che si vantava del suo titolo di levita e compiva le funzioni del ministero sacerdotale secondo la Legge, tutti e due ostentavano, come fai anche tu, di conoscere i comandamenti divini. E tuttavia non pensarono neppure lontanamente che quel poveretto che apparteneva alla loro razza ed era là nudo, coperto di gravissime ferite, steso a terra quasi sul punto di morire, era un uomo come loro: lo disprezzarono come se fosse una pietra o un pezzo di legno abbandonato.
Il samaritano invece, che non conosceva i comandamenti della Legge e che da voi è considerato pazzo e ignorante - perché addirittura un saggio ha parlato così: Gli abitanti della montagna di Samaria, i Filistei e il popolo stupido che abita a Sichem (Eccli. 50,28) - il samaritano riconobbe la natura umana e comprese chi è il prossimo. Così colui che voi giudici considerate tanto lontano, si è fatto vicinissimo per chi aveva bisogno di rimedio. Non restringere dunque in una meschinità giudaica e in una misura limitata la definizione di «prossimo»; non pensare che solo gli uomini della tua razza siano il tuo prossimo: il prossimo infatti è ogni persona su cui si riversa il tuo spirito di carità.
* Homilia LXXXIX: P.G. 23 - pp. 370-372.
Zenone da Verona *
San Zenone (morto nel 372) fu l'ottavo vescovo di Verona. La sua opera è quella di un predicatore formato nelle scuole di retorica. L'inno alla carità che leggeremo, è estratto da un sermone sulle tre virtù teologali.
O carità, come sei buona e ricca, come sei potente! Non possiede nulla colui che non possiede te. Tu hai potuto fare di un Dio un uomo. Tu hai allontanato - per un poco - dalla sua immensa maestà, questo Dio fatto piccolo. Tu l'hai tenuto prigioniero per nove mesi nel seno della Vergine. Tu, in Maria, hai ridato a Eva la primitiva integrità. Tu, nel Cristo, hai rinnovato Adamo. Tu hai preparato la santa croce per la salvezza del mondo ormai perduto. Tu hai reso vana la morte, insegnando a Dio il morire. Quando Dio, il Figlio di Dio onnipotente, è ucciso dagli uomini, è per te che nessuno dei due, cioè il Padre e il Figlio, si muove ad ira.
Tu mantieni la vita del popolo celeste, quando assicuri la pace,custodisci la fede, proteggi l'innocenza, onori la verità, ami la pazienza e ridoni la speranza. Tu fai di uomini diversi per costume, età e potere, dotati della stessa natura, un solo corpo e un solo spirito. Tu non permetti che i gloriosi martiri siano distolti dal confessare il loro nome di Cristiani da nessun tormento, o nuovo genere di morte, o premio, o amicizia, o sentimento di tenerezza, che strazia più crudelmente di qualsiasi carnefice. Tu, per vestire colui che è nudo, sei contenta di essere nuda. Per te la fame è sazietà, se un povero affamato ha mangiato il tuo pane: la tua ricchezza consiste nel destinare in misericordia tutto ciò che hai. Tu sola non sai che cosa sia farsi pregare. Tu soccorri senza indugio gli oppressi, in qualsiasi bisogno si trovino, anche a tuo danno. Tu sei l'occhio dei ciechi, tu il piede degli zoppi, tu il fedelissimo scudo delle vedove. Tu per gli orfani adempi il ruolo dei genitori - e molto meglio di essi. Tu non hai mai gli occhi asciutti, perché la misericordia o la gioia te lo impediscono. Tu ami i tuoi nemici con amore così grande, che nessuno potrebbe distinguere la differenza che c'è tra essi e coloro che ti sono cari.
Dirò di più: tu unisci i misteri celesti agli umani e gli umani ai celesti. Tu custodisci i divini segreti. Tu - nel Padre - governi e comandi. Tu - nel Figlio - obbedisci a te stessa. Tu esulti nello Spirito Santo.
Tu, poiché sei una nelle Tre Persone, non puoi in nessun modo essere frazionata; nessun raggiro di umana curiosità ti può turbare. Sgorghi dalla sorgente che è il Padre e ti riversi tutta nel Figlio: ma, pur riversandoti tutta nel Figlio, non ti allontani dal Padre. Giustamente sei chiamata Dio, perché tu sola guidi la potenza della Trinità.
* De spe, Fide et Caritate, IX: PL 11, 278A-280A.
Madeleine Delbrel *
Madelelne Delbrél nacque in Dordogna nel 1904 e morì a Parigi nel 1964. L'autrice di «Città marxista, terra di missione», ci rivela la sua esperienza del Cristo, che illumina il mondo con il suo vangelo. Colei che condivise la gioia di credere con quelli che non credono, ci invita, in questo passo, ad amare il nostro prossimo, unendoci a Cristo che ci fa dono di quest'amore.
«Figliolini miei, amatevi l'un l'altro»: è in sintesi tutto ciò che aveva da dire San Giovanni nella sua vecchiaia.
Noi dobbiamo amare Dio; il primo comandamento è costituito dall'amore di Dio. Il secondo però gli è simile e questo significa che soltanto attraverso gli altri noi possiamo rendere a Dio amore per amore.
Il pericolo sta nel fatto che il secondo comandamento può prendere il posto del primo. Ma noi abbiamo una prova per controllare il nostro amore: se amiamo cioè ogni uomo, se amiamo Cristo, se amiamo Dio in ogni uomo, senza preferenze, senza categorie, senza eccezioni.
Il secondo pericolo sta nel fatto che non siamo capaci di amare così e certo non ne saremo capaci, se separeremo la carità dalla fede e dalla speranza.
Soltanto la preghiera può darci la fede e la speranza. Senza la preghiera, non riusciremo ad amare. Nella preghiera e soltanto nella preghiera, il Cristo si rivelerà a noi in «ognuno» degli altri, per mezzo di una fede sempre più penetrante e capace di intuire al di là delle apparenze. Nella preghiera noi potremo domandare la capacità di donarci a ogni nostro fratello, quella capacità di dono senza 'Cui non c'è amore; mediante ,la preghiera la nostra speranza 'Crescerà fino a raggiungere la statura o il numero di tutti quelli che incontreremo o la profondità dei loro bisogni.
La fede e la speranza, dilatate per mezzo della preghiera, libereranno il sentiero del nostro amore dall'ostacolo che lo ingombra maggiormente: la preoccupazione di noi stessi.
Il terzo pericolo potrebbe essere quello di amare non «come Gesù ci ha amati», ma alla maniera umana. E questo è forse il pericolo più grande di tutti.
L'amore umano, infatti, per il fatto che è amore, è una cosa bella e grande. Anche gli increduli possono amare gli altri con un amore magnifico. Noi però non siamo stati chiamati ad amare così. Non dobbiamo dare agli altri il nostro amore, ma l'amore di Dio: l'Amore di Dio che è una persona divina, che è il Dono che Dio fa di se stesso a noi, ma che resta un dono, che deve - in un certo senso - passare al di là di noi, passare attraverso noi per andare altrove, per arrivare agli altri.
Un dono che esige l'Onnipotenza, senza permetterci di credere alla potenza di qualche altra cosa. Un dono che non possiamo conservare per noi senza estinguerlo, senza fargli cessare di essere dono.
* La joie de croire, Edit. du Seuil - Parigi 1967 - pp. 71-72.
Sant' Alfonso de' Liguori *
Nato a Napoli nel 1696, sant'Altonso fondò nel 1732 la Congregazione dei Redentoristi. A 66 anni venne eletto, suo malgrado, vescovo di S. Agata dei Goti presso Benevento e da allora si prodigò instancabilmente in favore del suo gregge, predicando senza posa ai sacerdoti e al popolo, catechizzando i fanciulli, assistendo i malati, privandosi di tutto per soccorrere i poveri. Morì nel 1787. Lasciò un gran numero di scritti tra cui numerose le opere di carattere morale. In questo campo egli segna un nuovo indirizzo, ristabilendo - come farà san Francesco di Sales in Francia - la vera nozione di pietà, alterata dal pessimismo giansenistico. Dotato di un profondo senso di umanità, possiede una dottrina particolarmente solida, che lo ha fatto proclamare dottore della Chiesa.
Allorquando Giacomo e Giovanni volevano che fossero corretti con castighi i samaritani, perché li avevano scacciati dal loro paese: Ah! disse loro il Signore, e quale spirito è questo? Questo non è lo spirito mio, il quale è tutto dolce e benigno; giacché io non sono venuto a perdere, ma a salvare le anime (Lc. 9,56). E voi volete indurmi a perderle? Tacete, e non mi fate più simili domande, perché non è questo lo spirito mio. Ed infatti con quanta dolcezza Gesù Cristo trattò l'adultera! Donna!,le disse, niuno ti ha condannata? Neppur io ti condannerò... Va' e non peccar più(Gv. 8, 10-11). Si contentò di solo ammonirla a non più peccare e la mandò in pace. Con quanta benignità parimenti cercò di convertire la Samaritana, e solo così la convertì! Prima le domandò da bere; poi le disse: «Oh! sapessi tu chi è colui che ti domanda da bere!» (cfr. Gv. 4,10). Indi le rivelò che egli era il Messia aspettato. Inoltre con quanta dolcezza procurò di convertire l'empio Giuda ammettendolo a mangiare nello stesso suo piatto,lavandogli i piedi, ed avvertendolo nell'atto stesso del suo tradimento: Giuda, così, con un bacio, mi tradisci? (Le. 22,48). Come poi convertì Pietro, dopo che questi lo aveva rinnegato? Eccolo: in uscire dalla casa del Pontefice, senza rimproverargli il suo peccato, lo mirò con un tenero sguardo, e così lo convertì e lo convertì in un modo, che Pietro finché visse non lasciò mai di piangere la ingiuria fatta al suo Maestro.
Oh quanto si guadagna più colla dolcezza che coll'amarezza! Non v'è cosa più amara del,la noce: ma se quella si sbuccia, diventa dolce e amabile. Così /e correzioni benché siano in sé dispiacenti, nondimeno quando si fanno con amore e dolcezza diventano gradevoli, e così riescono di maggior profitto... Bisogna praticar /a benignità con tutti ed in ogni occasione ed in ogni tempo. Taluni sono mansueti finché le cose avvengono a loro genio: ma appena sono toccati da qualche avversità o contraddizione, subito si accendono e cominciano a fumare come il monte Vesuvio. Costoro possono dirsi carboni ardenti, ma nascosti, sotto la cenere. Chi vuol farsi santo, bisogna che in questa vita sia come un giglio tra le spine, che per quanto venga da quelle punto, non tralascia di essere giglio, cioè sempre ugualmente soave e benigno. L'anima amante di Dio conserva sempre la pace nel cuore, e la dimostra anche nel volto comparendo sempre uguale a se stessa negli eventi così prosperi come avversi...
Quando ci occorre di dover rispondere a chi ci maltratta, stiamo attenti di rispondere sempre con dolcezza. Una risposta dolce basta a spegnere ogni fuoco di collera (Prov. 15,1). E quando d sentiamo disturbati, allora ci sembra giusto di dir quel che viene in bocca; ma sedata poi la passione vedremo che tutte le parole da noi proferite sono state difettose. E quando accade che noi stessi commettiamo qualche difetto, bisogna che ancora con noi medesimi usiamo la dolcezza; l'adirarci con noi. dopo il difetto commesso, non è umiltà, ma è fine superbia, come se noi non fossimo quei deboli e miserabili che siamo...
Bisogna dunque allorché cadiamo in qualche difetto, voltarci a Dio con umiltà e confidenza, e chiedendogli perdono dirgli come diceva santa Caterina da Genova: «Signore, queste son l'erbe dell'orto mio. V'amo con tutto il cuore, e mi pento d'avervi dato questo disturbo. Non voglio farlo più, datemi il vostro aiuto».
* Pratica di amar Gesù Cristo - Ed. Paol,ine, Pescara 1963 pp. 66-70.
Giovanni Cassiano *
Cassiano aveva abbracciato la vita monastica in un monastero vicino a Betlemme; fu poi ordinato diacono da san Giovanni Crisostomo a Costantinopoli e in seguito a Roma ricevette la dignità sacerdotale. Verso il 415 fondò due abbazie a Marsiglia e morì dopo il 430. Profondamente impregnato della spiritualità del deserto, Cassiano è senza dubbio lo scrittore che ha lasciato l'impronta più profonda nel monachesimo medioevale. Senza alterarla, ha saputo trapiantare l'esperienza ascetica dei monaci d'Egitto nell'ambiente mediterraneo dove, fin dal V secolo essa ha portato frutti abbondanti. Nel corso del Medioevo questa tradizione, orientata specialmente verso la purezza del cuore, si è diffusa in tutto l'Occidente cristiano. Ancor oggi, essa può dirigere lo sforzo di conversione di chiunque voglia prepararsi alla visione di Dio.
Sono numerosi quelli che, dopo aver disprezzato grandi beni, somme ingenti d'oro e d'argento e splendide proprietà, si turbano a causa di un temperino, di uno stilo, di un ago o di una penna. Se si fossero mantenuti costanti nella contemplazione e nella purezza del cuore, non avrebbero mai perduto questo bene per cose da nulla, mentre avevano preferito abbandonare le cose grandi e preziose piuttosto che incorrere in tale pericolo.
Infatti ci sono di quelli che custodiscono dei manoscritti così gelosamente da non tollerare che qualcuno vi dia un'occhiata o li tocchi appena; in questo modo trovano occasioni di impazienza e di rovina proprio dove dovrebbero imparare ad acquistare i beni della pazienza e della carità. Hanno abbandonato tutte le loro ricchezze per amore di Cristo, e conservano tuttavia il primitivo attaccamento del cuore alle cose più banali, lasciandosi spesso vincere a causa loro dalla collera. Non hanno in sé la carità di cui parla l'apostolo, e diventano perciò sterili e infruttuosi. Riferendosi a fatti di questo genere, san Paolo dice: Se distribuissi tutte le mie sostanze in cibo ai poveri, se dessi il mio corpo alle fiamme, e non avessi la carità, a nulla mi giova (1 Cor. 13, 3). Da questo si vede chiaramente che la perfezione non si raggiunge di colpo con la nudità e la privazione di tutte le ricchezze o col disprezzare gli onori, se poi non si ha la carità di cui l'apostolo descrive le forme e che consiste unicamente nella purezza del cuore. Infatti, non rivaleggiare, non gonfiarsi di superbia, non irritarsi, non agire disonestamente, non cercare il proprio interesse, non godere dell'ingiustizia, non tener conto del male e tutto il resto, che cosa significa se non offrire continuamente a Dio un cuore perfetto e purissimo e custodirlo intatto da qualsiasi turbamento di passione?
Perciò noi dobbiamo agire e desiderare ogni cosa in vista di tale purezza. Per essa - lo sappiamo bene - dobbiamo cercare la solitudine, praticare i digiuni e le veglie, sopportare le fatiche e la nudità, occuparci nella lettura; per questa dobbiamo darci alla pratica di tutte le virtù, e allora potremo rendere e conservare il nostro cuore libero da tutte le passioni cattive e salire per questi gradini fino alla perfezione della carità.
Se poi, impegnati in una giusta e necessaria occupazione, non potessimo adempiere ai nostri obblighi in tutto il loro rigore, non dobbiamo, per amore di queste osservanze, rattristarci, né lasciarci vincere dall'ira o dall'irritazione, poiché proprio per vincere questi difetti noi ci eravamo proposti di fare quel che abbiamo dovuto poi tralasciare. Infatti con un movimento di collera perdiamo più di quel che acquistiamo con un digiuno; e il frutto che si ricava dalla lettura non può essere maggiore del danno causato dal disprezzare un fratello. Quindi le cose secondarie, cioè i digiuni, le veglie, la solitudine, la meditazione della Scrittura, dobbiamo riferirle al fine principale, cioè a quella purezza di cuore che è la carità; non è giusto, a causa di queste altre cose, mettere in pericolo la virtù fondamentale. Infatti, se questa rimane integra e intatta, nulla potrà nuocerci, anche se saremo costretti a tralasciare per necessità qualcosa di secondario: a niente ci servirebbe l'adempiere perfettamente tutti gli impegni, se restiamo privi del bene più importante in vista del quale si devono compiere tutte le altre cose.
* Conlatio Prima, 6-7, «Sources chrétiennes», Le Cerf, 1955 pp. 83-85.
W9 «AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE»
San Bernardo *
San Bernardo (1090-1153) si fece monaco a Citeaux e, tre anni dopo, divenne il primo Abate di Chiara valle. I doni di natura e di grazia hanno conferito a questo letterato, teologo e mistico, un fascino tutto particolare. La sua opera conserva ancora oggi un grande valore spirituale.
Nei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici, grazie anche alla perfezione della forma letteraria, egli ci fa gustare i frutti di una lunga esperienza di vita spirituale.
L'amore basta a se stesso, piace per sé e a motivo di sé; è merito e ricompensa a se stesso. Non cerca all'infuori di sé nessuna causa e nessun frutto: suo frutto è appunto amare. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l'amore purché risalga al suo principio e, ritornato alla sua origine, riversatosi nella sua fonte, attinga sempre da essa per poter fluire perennemente. Di tutti i moti dell'anima, dei sentimenti e degli affetti, l'amore è il solo col quale la creatura può rispondere al suo Creatore, se non da pari a pari, almeno da simile a simile...
L'amore dello Sposo, o meglio lo Sposo che è amore, chiede solo reciprocità d'amore e fedeltà. L'amata dunque deve amari o a sua volta. Come potrebbe non amare lei che è sposa e sposa dell'Amore? Come potrebbe l'Amore non essere amato?
E' giusto allora che, rinunziando a tutti gli altri affetti, si dia interamente ad un unico amore, lei a cui tocca rispondere all'Amore stesso ricambiando amore. Infatti anche se si effonde tutta in amore, che proporzione ci sarà tra questo suo amore e lo scorrere perenne di quella che è la fonte? Certamente il flusso dell'amore non sgorga con la stessa ricchezza da chi ama e da chi è l'Amore, dall'anima e dal Verbo, dalla sposa e dallo Sposo, dal Creatore e dalla creatura: l'abbondanza della fonte non è certo quella dell'assetato. E allora? Sarà quindi vano, sparirà completamente il desiderio di quella che aspetta le nozze? L'aspirazione di chi attende, l'ardore dell'amante, la fiducia di chi spera saranno delusi perché la sposa non può correre col passo di un gigante, contendere in dolcezza col miele, in mitezza con l'agnello, in candore col giglio, in luminosità col sole, in amore con colui che è Carità? No. Infatti, anche se la creatura ama di meno perché è più piccola, tuttavia può amare con tutta se stessa e dove c'è il tutto nulla manca. Perciò, come ho detto, amare così è una vera unione nuziale: non è infatti possibile volere tanto bene e non essere ricambiati nella stessa misura, in modo che il perfetto connubio consista nel reciproco consenso di due. A meno che qualcuno non obbietti che è l'anima ad essere amata dal Verbo, amata prima e di più. Perciò è prevenuta e superata nell'amore. Beata colei che ha meritato di essere prevenuta e benedetta con tanta tenerezza! Felice quella a cui è stato concesso di sperimentare un abbraccio così soave! Questo non è altro che amore santo e casto, dolce e delicato, amore tanto sereno quanto sincero, amore reciproco tutto intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito e di due non fa più due ma uno solo, come dice Paolo: Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con lui (1 Cor. 6, 17).
* Sermones super Cantica Canticorum, sermo LXXXIII, vol. II - Ed. Cist. Roma 1958 - pp. 300-302.
W10 «CHE COSA RENDERÒ AL SIGNORE
PER TUTTO IL BENE CHE MI HA FATTO?» (Sal. 115,12)
San Basilio *
San Basilio il Grande, nato verso il 330 e morto nel 379, fu vescovo di Cesarea in Cappadocia. Monaco austero, pastore di anime attento ai bisogni dei poveri e dei malati, e uomo di governo, San Basilio fu ad un tempo oratore, esegeta, moralista, difensore intrepido della fede minacciata dagli intrighi degli Ariani, e teologo di notevole valore. Si distingue per la sua energia e per il suo senso dell'equilibrio e della misura. Nella sua opera non manca tuttavia l'ardore dell'entusiasmo, soprattutto quando si tratta di esaltare la magnificenza del Creatore.
Che linguaggio potrà esporre degnamente i doni che Dio ci ha fatto? Tale è la loro abbondanza che il numero ce ne sfugge; essi sono così grandi e di tale natura che uno solo ci costringe a offrire tutta la nostra gratitudine a colui che ce li ha elargiti...
Ma c'è un dono che non si può tralasciare neppure volendolo e che, se siamo dotati di intelligenza e di mente sana, è assolutamente impossibile passare sotto silenzio, anche se ci troviamo più che mai incapaci di parlarne degnamente: Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza, e lo ha reso degno di fargli conoscere se stesso. Con il dono dell'intelligenza lo ha posto al di sopra di tutti gli esseri viventi, gli ha offerto di godere gli incomparabili splendori del paradiso, e lo ha costituito padrone di tutto ciò che si trova sulla terra. Quando poi l'uomo fu ingannato dal serpente, quando cadde nel peccato e, con il peccato, nella morte con tutto ciò che essa comporta, Dio non lo abbandonò. Al contrario, gli diede anzitutto il soccorso della Legge, gli pose accanto degli angeli che lo difendessero e si prendessero cura di lui, inviò dei profeti per rimproverargli le sue malvagità e insegnargli la virtù. Spezzò con le minacce la sua inclinazione al male e con le promesse destò il suo desiderio del bene; e spesso mostrò in figura, con esempi salutari che servissero di ammonimento per gli altri, a che cosa terminano bene e male. E sebbene gli uomini, dinanzi a tutti questi doni e ad altri simili, si ostinassero nella disobbedienza, Dio non si allontanò da loro.
Pur avendo offeso il nostro benefattore con l'indifferenza per i doni ricevuti, non siamo stati abbandonati dalla bontà del Signore, né separati dal suo amore per noi; anzi siamo stati richiamati dalla morte e resi nuovamente alla vita dallo stesso Signore nostro Gesù Cristo. E il modo con cui siamo stati salvati è degno di un'ammirazione ancora più grande. Lui, di condizione divina, non volle conservare gelosamente per sé l'uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso prendendo condizione di schiavo (Fil. 2, 6-7).
Ha preso su di sé le nostre debolezze, ha portato le nostre sofferenze, è stato trafitto per noi, perché noi fossimo guariti grazie alle sue ferite (cfr. Is. 53, 4-5). Ci ha riscattati dalla maledizione facendosi maledizione per noi (cfr. Gal. 3, 13); ha sofferto la morte più infamante, per condurci alla vita della gloria.
E non gli è bastato ridare la vita a quelli che si trovavano nella morte, ma ha anche offerto loro la sua dignità divina; ci ha preparato un riposo eterno, una beatitudine immensa che supera ogni immaginazione umana.
Che cosa dunque renderemo al Signore per tutto quello che ci ha donato? (cfr. Sal. 115, 12).
Egli, poi, è così buono che non domanda nulla in compenso dei suoi benefici, ma si accontenta di essere amato.
Vi dirò quel che provo: quando tutte queste cose mi ritornano alla mente, sono preso da un brivido e da un'ansietà terribile nel timore che, per la mia negligenza e il mio affaccendarmi in cose vane, io mi escluda dall'amore di Dio e diventi per Cristo motivo di vergogna.
* Grandi Regole, domanda II, 2-4: PG 31, 912-916.
Sant'Agostino *
Sant'Agostino (354-430), vescovo di Ippona in Africa, romano per cultura, pensatore di genio, ci ha lasciato un'opera monumentale, di inestimabile valore. Filosofo, teologo, pastore d'anime e grande spirituale, è il Dottore della grazia, e più ancora, della carità.
Si è manifestato /' amore di Dio per noi (1 Gv. 4, 9): così san Giovanni ci invita ad amare Dio. Ma potremmo amari o, se egli non ci avesse amati per primo? Se siamo stati lenti ad amarlo, sforziamoci di non esserlo nel ricambiare il suo amore. Ci ha amati per primo: noi invece non siamo capaci di amare così. Ci ha amati mentre eravamo peccatori, ma ha distrutto if nostro peccato; ci ha voluto bene mentre eravamo lontani da lui, ma non ci ha radunati insieme perché continuassimo a peccare; ci ha amati quando eravamo nella malattia, ma è venuto a noi per guarirci.
Sì, Dio è amore. L'amore di Dio per noi si è manifestato in questo: Dio ha mandato il suo unico Figlio nel mondo, perché possiamo vivere per mezzo di lui (1 Gv. 4, 8-9). Il Signore stesso l'ha detto: Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici (Gv. 15, 13), e la prova dell'amore di Cristo per noi sta proprio nel fatto che egli è morto per noi. E quale prova abbiamo dell'amore del Padre nei nostri riguardi? Ecco: ha mandato il suo Figlio unico a morire per noi, come dice l'apostolo Paolo: Egli che non ha risparmiato li proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi, come non ci darà anche tutto il resto insieme con lui? (Rom. 8, 32).
Cristo è consegnato alla morte dal Padre, ed è consegnato da Giuda; non sembra quasi lo stesso gesto? Giuda è traditore: è dunque traditore anche Dio Padre? Certamente no, mi dirai. Eppure non sono io che affermo una cosa del genere, ma san Paolo: Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato al/a morte per tutti noi: il Padre l'ha consegnato e lui stesso si è consegnato. E' ancora l'apostolo che dichiara: Mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal. 2, 20). Ma allora, se il Padre ha consegnato alla morte suo Figlio e il Figlio si è consegnato da sé, che cosa ha fatto Giuda? Una consegna è stata fatta dal Padre, una consegna dal Figlio, una consegna da Giuda: è sempre il medesimo gesto. Che cosa dunque distingue il Padre che abbandona alla morte il Figlio, il Figlio che si dà volontariamente e il discepolo Giuda che consegna il Maestro? Ecco: il Padre e il Figlio hanno fatto tutto questo per amore, mentre Giuda l'ha fatto per tradimento. Vedete perciò che bisogna considerare non quello che l'uomo fa, ma lo spirito e l'intenzione con cui lo fa... Anche se si tratta di una stessa azione, quando la misuriamo dalla diversità delle intenzioni, troviamo materia per amare e condannare, per lodare o detestare. Sì, perché questo è l'immenso valore della carità: essa è l'unica che permette di distinguere, l'unica che permette di misurare le azioni umane.
Eccoti dunque una brevissima norma che compendia tutto: ama e fa' quel che vuoi. Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore. L'amore affondi come una radice nel tuo cuore: da questa radice non può nascere se non il bene.
* In Epistolam Joannis ad Parthos, VII, 7-8: PL 35, 2032-2033.
W12 LO SPIRITO SANTO CI INSEGNA L'ARTE D'AMARE
Ruysbroek l'Ammirabile *
Giovanni Ruysbroek, detto l'Ammirabile, nacque nei dintorni di Bruxelles nel 1293. Divenne sacerdote e, dopo parecchi anni di ministero in qualità di cappellano di santa Gudula a Bruxelles, si ritirò in una valle solitaria assieme a due compagni, per donarsi interamente alla contemplazione. Era l'anno 1343. Ben presto il romitaggio di Groenendael (Val Verde), nella foresta di Soignes, attirò molti desiderosi di mettersi sotto la sua guida spirituale. Egli fondò allora nella medesima località un'abbazia di Canonici Regolari Agostiniani. La sua fama è dovuta non solo alla santità della sua vita, dedita alla più alta contemplazione e contrassegnata da molte grazie, ma anche alla mirabile dottrina mistica, che sapeva spiegare in modo efficace a quanti lo avvicinavano. Pur combattendo il falso misticismo di una setta di tendenze quietistiche, Ruysbroek impernia la sua dottrina sul principio della «nudità spirituale» e della passività dell'anima nell'unione mistica. La sua lunga vita si concluse nel 1382 e i suoi scritti, divulgati in lingua fiamminga, ebbero una grande diffusione.
Il nostro Padre celeste fin dall'eternità ci ha chiamati e ci ha prescelti nel suo Figlio diletto e, con la sua mano amorosa, ha scritto i nostri nomi nel libro vivente dell'eterna Sapienza: noi quindi dobbiamo corrispondere al suo amore con tutte le nostre forze, con una riverenza e una venerazione infinita. Proprio così cominciano tutti i canti degli angeli e degli uomini, i canti che non avranno mai fine.
La prima melodia del canto celeste è l'amore verso Dio e verso il prossimo: per insegnarcela Dio Padre ha mandato a noi suo Figlio. Chi infatti non conosce questa melodia non può entrare nel coro celeste, perché non solo non la conosce, ma non ne gusta la bellezza: sarà quindi escluso in eterno dalle schiere del cielo.
Gesù Cristo, colui che da sempre ci ha amati, fin dal giorno della sua concezione nel grembo santo della Vergine, cantava nel suo spirito gloria e onore al suo Padre celeste, serenità e pace a tutti gli uomini di buona volontà. E nella notte in cui nacque da Maria, sua madre, gli angeli cantarono il medesimo inno. A questo pensa la santa Chiesa quando lo canta a sua volta, soprattutto nelle due feste dell'Annunciazione e del Natale.
E infatti tutto ciò che di più sublime e di più gioioso si può cantare in cielo e sulla terra è proprio questo: amare Dio, e amare il prossimo in vista di Dio, a causa di Dio e in Dio. L'arte e la scienza di questo canto ci vengono date dallo Spirito Santo.
Cristo, che è il nostro cantore e maestro di coro, ha cantato fin dal principio e intonerà per noi eternamente il cantico della fedeltà e dell'amore senza fine. E anche noi, con tutte le nostre ,forze, canteremo dopo di lui, sia quaggiù in terra, sia nel coro della gloria di Dio. Il canto comune che tutti dobbiamo conoscere per far parte del coro degli angeli e dei santi nel regno di Dio è dunque l'amore vero e senza finzione. L'amore infatti è la radice e la causa di tutte le virtù nell'intimo del nostro cuore ed è, all'esterno, la veste capace di adornare tutte le nostre opere buone. L'amore vive di se stesso ed è ricompensa a se stesso. In quello che fa non può ingannarsi, perché nell'esercizio della carità siamo stati preceduti e sorpassati da Cristo, che ci ha insegnato l'amore ed è vissuto nell'amore, lui e tutti i suoi. Dobbiamo dunque imitarlo, se vogliamo essere beati con lui e possedere la salvezza.
Questa è la prima melodia del canto celeste, che la Sapienza di Dio insegna, attraverso la mediazione dello Spirito Santo, a tutti i discepoli che le obbediscono.
* Les sept degrés de l'amour spirituel, XII - in Oeuvres de Ruysbroek l'Admirable, Ed. Vromant et C. Bruxelles - Parigi 1922, vol. 1 - pp. 248-249.
W13 LA NUZIALE E DOLCE VESTE DELLA CARITÀ
Santa Caterina da Genova *
Caterina dei Fieschi nacque a Genova nel 1447 e a sedici anni andò sposa, contro la sua volontà, al nobile ghibellino Giuliano Adorno. Dopo alcuni anni di pena a causa di quest'unione infelice e dopo altri ,di dissipazione e di vita mondana, l'esistenza della giovane donna fu radicalmente trasformata da un'illuminazione improvvisa. L'austerità, la preghiera e l'assistenza ai malati furono da allora le occupazioni di Caterina. Il marito stesso fu conquistato all'ideale di vita della giovane sposa e si fece suo collaboratore nelle opere di misericordia. La santa morì nel 1510. Contemplativa e mistica di eccezionale profondità, santa Caterina da Genova ci lascia nel suo «Dialogo» e nel «Trattato del Purgatorio» una solida e sicura dottrina spirituale e consolanti rivelazioni sull'aldilà.
Gesù, chi ti ha fatto venire dal cielo in terra? L'amore! Chi ti ha fatto patire tanti e così terribili tormenti fino alla morte? L'amore! Chi ti ha fatto lasciare te stesso in cibo all'anima tua diletta? L'amore! Chi ti ha mosso che ci hai mandato e continuamente ci mandi, per nostra fortezza e guida, lo Spirito Santo? L'amore! Molte altre cose si possono dire di te. Tu sei sembrato tanto vile e abbietto in questo mondo, e tanto ti umiliasti, dinanzi al popolo, solo per amore che, non solo non fosti riconosciuto come Dio, ma quasi non fosti ritenuto neppure uomo. Un servo, pur quanto si voglia fedele e affezionato, non sopporterebbe tanto per il suo padrone, anche se gli fosse promesso il paradiso: ciò perché senza il tuo amore interiore, che tu doni all'uomo, non si può con pazienza sopportare tormento alcuno nella anima e neppure nel corpo. Ma tu, Signore, portasti dal cielo questa soave manna e questo dolce cibo, il quale ha in sé tal vigore, che fa sopportare ogni supplizio, e tanto noi abbiamo visto per esperienza, prima di te, dolce Maestro nostro, Signore e guida, e poi nei tuoi santi.
O quante cose essi hanno fatte e sopportate con grande pazienza, per questo tuo amore, infuso nel loro cuore, del quale restavano tanto accesi e uniti con te, che qualsivoglia tormento non li poteva separare da te: anzi in questi tormenti si accendeva in loro uno zelo che cresceva tanto quanto crescevano i tormenti. Per questo motivo essi non potevano essere superati da quanti martirii i tiranni crudelissimi potessero immaginare. Costoro guardavano solo di fuori la debolezza della carne: non vedevano quel soave e forte amore, né lo zelo che Dio infondeva nel loro cuore, e che è tanto vivo e forte che se uno vi si attacca bene non può mai perire.
Non si trova via né più breve, né migliore, né più sicura per la nostra salvezza di questa nuziale e dolce veste della carità, la quale dà tanta fiducia e tanto vigore all'anima, che essa si presenta a Dio senza alcun timore. Ma, per contrario, se si trova nuda di carità al tempo della morte, resta tanto abbietta e vile che se ne andrebbe in ogni altro luogo, quanto si voglia tristo e cattivo, per non comparire alla divina presenza. Infatti, poiché Dio è semplice e puro, non può ricevere in sé altra cosa, che non sia puro e semplice amore. Essendo Dio un mare d'amore, nel quale restano annegati e inabissati tutti i Santi, è impossibile che una qualsiasi minima imperfezione vi possa entrare, e perciò l'anima nuda di carità, quando è separata dal corpo in questo mondo però, piuttosto che presentarsi a quella nettezza e semplicità (di Dio) si getta nell'inferno. O amore puro, ogni minima macchia di difetto è per te grande inferno e ancora più aspro di quello dei dannati per l'impeto e la veemenza tua. Questo non crederà, né potrà intendere se non chi sarà in te esperto ed esercitato.
* Dialogo, III parte, in Opere di Santa Caterina da Genova, Ed. Paoline, Modena 1956 - pp.195-197.
W17 IL NUOVO CANTICO DELL'AMORE
Sant'Agostino *
Sant'Agostino (350-430), vescovo d'Ippona, è Romano in tutta la sua cultura. Pensatore geniale, ci ha lasciato un'opera monumentale di valore inestimabile. Filosofo, teologo, pastore d'anime e uomo di grande spiritualità, è il Dottore della grazia e, ancor più, il Dottore della carità.
Noi siamo invitati a cantare al Signore un cantico nuovo (cf. Sal. 149, 1). Chi conosce questo cantico nuovo èl'uomo nuovo. Il canto è gioia e, se noi lo consideriamo più da vicino, esso è amore. Colui che sa amare la vita nuova, conosce questo cantico nuovo. Bisogna quindi che noi siamo perfettamente al corrente del significato della vita nuova tenendo conto del cantico nuovo. Qui tutto appartiene al medesimo Regno: uomo nuovo, cantico nuovo, nuova alleanza. L'uomo nuovo canterà un cantico nuovo ed apparterrà alla nuova alleanza.
Nessuno è senza amore. Tuttavia bisogna domandarsi che cosa è da amare. Noi non siamo invitati ad astenerci dall'amare, bensì a scegliere che cosa amare. Ora, che possiamo scegliere se noi non veniamo dapprima scelti, in quanto siamo in grado di amare solo se siamo dapprima amati? Ascoltate l'apostolo Giovanni: ...noi amiamo, dice, perché Dio ci ha amati per primo (1 Gv. 4, 10). Cerca il modo in cui l'uomo possa amare Dio, e tu scoprirai nient'altro che questo: cioè, che Dio ha amato l'uomo per primo. Colui che amiamo, ha donato se stesso, offrendoci così la sorgente dell'amore. San Paolo ci dice chiaramente ciò che Dio ci ha dato affinché amassimo. Ascoltatelo: l'amore di Dio, dice, è stato diffuso in abbondanza nei nostri cuori. D1:1 chi? Da noi? No. E da chi allora? Dallo Spirito Santo che ci è stato dato (Rom. S, 5). Dal momento che noi abbiamo una simile certezza, cerchiamo di amare Dio per mezzo di Dio...
Porgiamo ora ascolto a questa espressione di Giovanni, ancor più esplicita: Dio è amore, e chi sta nell'amore sta in Dio, e Dio sta in lui (1 Gv. 4, 16). E' poco dire: «L'amore viene da Dio"," Ma chi oserebbe affermare ciò che è stato appena detto: Dio è amore? Colui che l'ha detto conosceva quello che portava in sé... Tu non vedi Dio. Ama e l'avrai in te... Dio si offre a noi. Ci grida: «Amatemi e io sarò in voi, poiché non potreste amarmi, se io non fossi in voi».
Fratelli miei e figli miei, germe della Chiesa universale, sante e celesti pianticelle rigenerate dal Cristo e nate dall'alto, ascoltatemi o, piuttosto, ascoltate dalla mia voce questa espressione: Cantate al Signore un cantico nuovo (Sal. 149, 1). «Ecco, io canto», tu dirai. Tu canti, sì tu canti, lo sento. Ma fai attenzione che la tua vita non abbia a testimoniare contro la tua lingua. Cantate con la voce, cantate col cuore, cantate con la vostra bocca, cantate con la vostra condotta, cantate al Signore un cantico nuovo. Voi vi chiedete che cosa cantare per colui che amate, e cercate quali lodi cantargli. Sia lode a lui, tra lo stuolo dei santi! (Sal. 149, 1). La lode da cantare, è il cantore stesso. Volete cantare delle lodi a Dio? Siate voi stessi ciò che cantate. Voi siete la sua lode se vivete bene.
* sermone sull'Antico Testamento, 1-3,5-6 CCL 41, 423-426.
W18 «SIATE MISERICORDIOSI, COME È MISERICORDIOSO IL PADRE VOSTRO»
Youssef Bousnaya *
Il capitolo VIII della Vita di Rabban Youssef Bousnaya, monaco siriano della Chiesa nestoriana (circa 869-979), è una specie di direttorio di vita monastica che descrive tutte le tappe della formazione del monaco, dall'entrata al monastero fino alla vita eremitica. La dottrina del Padre, fedelmente trasmessa dal suo discepolo e biografo, Giovanni Bar Kaldoun, è così vicina al Vangelo che questa sapienza del deserto può ancora ispirare il cristiano moderno, ansioso d'incarnare nel nostro tempo lo spirito delle Beatitudini.
La misericordia è l'immagine di Dio, e l'uomo misericordioso è, in verità, un Dio che abita sulla terra. Come Dio è misericordioso verso tutti, senza alcuna distinzione, così l'uomo misericordioso diffonde i suoi atti d'amore e di generosità su tutti, in eguale misura.
Figlio mio, sii misericordioso e diffondi benevolenze su tutti, affinché tu possa elevarti al grado della divinità: in quanto, come ho già detto, l'uomo misericordioso è un altro Dio sulla terra. Attento, però, a non lasciarti sedurre da questo pensiero che potrebbe allettarti: «E' meglio che io sia misericordioso con colui che aderisce alla fede, piuttosto che con colui che ci è estraneo». Questa non è affatto la misericordia perfetta che imita Dio, il quale effonde i suoi benefici su tutti, senza discriminazione alcuna: egli fa sorgere il suo sole sopra i cattivi e sopra i buoni e fa piovere sui giusti e sugl'ingiusti (Mt. 5, 45).
La misericordia non merita d'essere lodata tenendo esclusivamente conto dell'abbondanza degli atti di bontà e generosità, ma assai più quand'essa procede da un pensiero retto e misericordioso. Vi sono coloro che danno e distribuiscono molto e che non sono affatto ritenuti misericordiosi davanti a Dio. Vi sono altresì coloro che non hanno nulla, che non posseggono alcunché, ma che sentono in cuor loro pietà per tutti: ebbene, costoro sono considerati davanti a Dio come dei perfetti misericordiosi, e tali effettivamente sono. Non dire dunque: «Non ho nulla da dare ai poveri»; né devi affliggerti nel tuo intimo di non poter essere, per questa ragione, misericordioso. Se tu hai qualche cosa, da' ciò che hai. Se non hai nulla, da' ugualmente, non foss'altro che un pezzetto di pane secco, con intenzione veramente misericordiosa: ciò sarà considerato dinnanzi a Dio come la misericordia perfetta. Nostro Signore non ha lodato coloro che gettavano nella cassetta delle oblazioni molte monete. Ha invece lodato la vedova che vi aveva messo due monetine tolte alla sua indigenza, con retta intenzione, per gettarle nel tesoro di Dio. L'uomo che, nel suo cuore, sente pietà per i suoi simili, è reputato misericordioso davanti a Dio. Una retta intenzione senza conseguenze visibili vale più di molte opere manifeste, prive di retta intenzione. Dunque l'uomo può essere misericordioso e giungere ad avere la misericordia anche senza possedere nulla: il che significa che egli è misericordioso nel pensiero.
Dio è amore (1 Gv. 4, 8): il suo amore è la sua stessa essenza. E' stato l'amore per noi che ha indotto il Creatore a crearci. L'uomo che possiede la carità, è veramente Dio in mezzo agli uomini.
* Doctrine de Rabban Youssef Bousnaya, di Giovanni Bar Kaldoun. Trad. di J. B. Chabot riprodotta da P. Deseille in L'Évangile au désert, Le Cerf 1965 - pp. 244-246.
Aelred De Rievaulx *
Aelred de Rievaulx (1110-1167) nacque nello Yorkshire. Verso il 1133 passò dalla corte del re di Scozia all'abazia cistercense di Rievaulx. Dottore di vita spirituale, fu successivamente maestro dei novizi, abate di Saint-Laurent de Rivesby e abate di Rievaulx.
«Questo nostro Aelred è quasi un altro Bernardo», dicevano di lui i monaci cistercensi che lo conobbero e l'amarono. Infatti, senza eguagliare il suo prestigioso contemporaneo, Aelred ci ha trasmesso un'opera di valore, i cui temi più importanti sono quelli che trattano del tenero amore verso Dio, della devozione affettiva verso l'umanità del Salvatore e verso la Vergine Maria, e dell'amicizia spirituale tra gli uomini.
Nulla ci spinge all'amore dei nemici - in cui consiste la perfezione della carità fraterna - tanto quanto il considerare con gratitudine la mirabile pazienza del più bello tra i figli dell'uomo (Sal. 44, 3). Egli ha porto il suo bel volto agli empi, perché glielo coprissero di sputi. Ha loro permesso di mettere una benda su quegli occhi che con un cenno governano l'universo. Egli ha esposto il proprio corpo alla sferza. Ha sottomesso alla puntura delle spine il suo capo, davanti al quale devono tremare principi e potenti. Si è abbandonato agli obbrobri ed alle ingiurie. Ed infine ha sopportato con pazienza la croce, i chiodi, la lancia, il fiele, l'aceto, rimanendo in mezzo a tutto questo, pieno di dolcezza e di serenità. Fu condotto come una pecora al mattatoio, rimase in silenzio come fa un agnello con chi lo tosa, e non aprì la bocca (cf. Is. 53, 7).
Orgogliosa impazienza dell'uomo, osserva colui che ha sofferto tutto ciò e considera il modo in cui l'ha sopportato! Ci sarebbe più da meditare che da scrivere! Chi non sentirebbe cadere immediatamente ogni collera alla vista di sì mirabile pazienza? Sentendo questa espressione piena di dolcezza, di carità e di imperturbabile serenità: Padre, perdona loro (Lc. 23, 24), chi non abbraccerebbe immediatamente i suoi nemici con effusione? Che si potrebbe aggiungere alla dolcezza ed alla carità di questa preghiera? Eppure il Signore aggiunse qualche altra cosa. Non si accontentò di pregare, volle anche scusare: Padre, disse, perdona loro, perché non sanno quel che fanno. Essi indubbiamente sono dei grandi peccatori, ma ne hanno appena coscienza; per questo, Padre, perdona loro. Essi crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché se lo avessero conosciuto, non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria (1 Coro 2, 8). Per questo, Padre, perdona loro. Essi pensano che si tratti di un fuori-legge, di un usurpatore della divinità, di un seduttore del popolo. lo ho nascosto loro il mio volto. Essi non hanno riconosciuto la mia maestà. Per questo, Padre, perdona loro: non sanno quel che fanno.
Per imparare ad amare, "uomo non deve dunque lasciarsi trascinare dagli impulsi della carne. E per non essere preso da questa bramosia, egli deve rivolgere tutto il suo affetto alla dolce pazienza della carne di Dio. Per trovare il riposo nelle delizie della carità fraterna, egli deve anche cercare di stringere i propri nemiCi nelle braccia del vero amore. Ma, affinché questo fuoco divino non diminuisca a causa degli oltraggi, egli deve cercare di fissare sempre gli occhi dello spirito sulla serena pazienza del suo diletto Signore e Salvatore.
* Lo specchio della carità, libro 111, cap. 5: Corpo Christ. Conto Merl. 1; 112-113.
W20 IL CRISTO NEI MISERI E NEI PICCOLI
San Giovanni Crisostomo *
Dopo studi brillanti e lunghi ritiri in solitudine, Giovanni Crisostomo (nato verso il 344) fu ordinato sacerdote in Antiochia, sua città natale, nel 386. Rivelò immediatamente una eloquenza di potenza eccezionale. Nominato vescovo di Costantinopoli nel 398, si impegnò a riformar gli abusi che in quella Chiesa si erano insinuati e a confermar la fede dei suoi fedeli. " suo messaggio, eco di tutta la Bibbia - specie di San Paolo e del Vangelo - sembrò rivoluzionario a molti contemporanei. La fermezza con cui denunciò lo sfarzo della corte imperiale lo fece condannar due volte all'esilio. Relegato ai confini del Mar Nero, vi morì consumato nel 407.
Allorché si disprezza il povero, è Cristo che si disprezza; perciò la colpa è enorme. Lo stesso Paolo ha perseguitato il Cristo perseguitando i suoi, ed è per questo ch'egli si sente dire: Perché mi perseguiti? (Atti, 9,4). Ogni qualvolta facciamo l'elemosina, studiamoci di aver le stesse disposizioni d'animo come se dessimo al Cristo stesso, poiché le sue parole sono più degne di fede dei nostri stessi occhi. Quando vedi un povero, ricordati dunque di quelle parole con cui il Cristo ti rivela che è lui che tu puoi soccorrere. Poiché anche se ciò che appare non è lui, tuttavia, sotto quella forma, è lui stesso che mendica e che riceve. Tu arrossisci, allorché senti che il Cristo è mendicante! Arrossisci piuttosto di non dar nulla allorché egli mendica. Lì è la vergogna, lì è la pena e il castigo. Se egli mendica, lo fa per amore, e dobbiamo commuoverei; ma il non dare, è una crudeltà da parte tua. Se tu non credi che trascurando un fratello in miseria, è il Cristo che tu trascuri, dovrai pur crederlo quando ti farà comparire in mezzo ai suoi e dirà: Qualunque cosa non avete fatto ad uno di questi piccoli, non l'avete fatta a me (Mt. 25,45).
* * *
A che serve ornare di vasi d'oro la mensa del Cristo. se proprio lui muore di fame? Comincia col rifocillarlo quand'è affamato, allora potrai decorar la sua tavola col superfluo. Dimmi: se, vedendo qualcuno privo del sostentamento indispensabile, tu lo lasciassi con la sua inedia e andassi ad abbellire la sua tavola con vasi d'oro, te ne sarebbe egli riconoscente? O non piuttosto indignato? O ancora, se vedendolo vestito di cenci e intirizzito per il freddo, tu lo lasciassi senza vesti per erigergli delle colonne d'oro, pretendendo in tal modo di onorario, non direbbe che ti prendi scherno di lui e con la più raffinata ironia?
Confessa a te stesso che così tu agisci verso il Cl:isto, allorché egli va pellegrino, straniero e senza riparo, e tu, senza riceverlo, decori i pavimenti, le pareti e i capitelli delle colonne. Tu appendi lampadari con catene d'argento, e quando egli è incatenato, tu non vuoi andare a consolarlo. Non dico questo per riprovare questi ornamenti, ma affermo che bisogna fare una cosa senza omettere l'altra; anzi, che bisogna iniziare da questa, dal soccorrere il povero.
Fra voi qualcuno forse dirà: se mi fosse dato di poter ospitare san Paolo, lo farei con grande premura. Ed ecco che ti è possibile accogliere in casa tua il Signore di san Paolo, e tu non lo vuoi! Chiunque accoglierà un piccolino come questo, in nome mio, accoglie me, dice Gesù (Mt. 18,5). Più il fratello è piccolo, più il Cristo è presente in lui. Chi riceve un personaggio lo fa spesso per vanagloria; ma chi riceve un povero lo fa unicamente per amor di Cristo.
* Omelia 88 su Mt.: PG 58, 778-779. - Om. 50 su Mt.: PG 58, 509. - Om. 45 sugli Atti: PG 60, 318.
Antonio Rosmini *
Antonio Rosmini Serbati nacque a Rovereto nel 1797. Ordinato sacerdote nel 1821, si laureò in teologia l'anno seguente. Mise il suo ingegno eccezionalmente vasto e profondo al servizio della religione e della Chiesa: sua preoccupazione fondamentale fu la diffusione del pensiero e della filosofia cristiana. Creò l'Istituto della Carità e le Suore della Provvidenza ed eresse scuole e col. legi. L'incomprensione di uomini politici ed ecclesiastici gli procurò molte sofferenze, che seppe sopportare con serenità: alcune sue opere furono condannate dalla Chiesa. Il tempo poi ha fatto rifulgere non solo la purezza e l'ortodossia del pensiero dell'insigne filosofo, ma anche la sua grande santità. Rosmini morì a Stresa, circondato di stima e di ammirazione, nel 1855.
Iddio, il primo oggetto della carità, è anche colui che ama per primo: egli anzi è essenzialmente carità: un atto di questa essenziale carità è l'incarnazione di Cristo. Il perché Iddio e Cristo, non solamente sono gli oggetti della carità, ma, come accennavo, ne sono altresì gli esemplari, ne sono anche la causa in noi; ché noi amiamo tali oggetti amabili, perché essi, siccome soggetti amanti, ci hanno amato i primi, dicendo l'Apostolo della carità: In questo apparì la carità di Dio in noi, che mandò il suo Figliuolo Unigenito nel mondo; e, ripetendosi, continua: In questo sta la carità, non quasi che noi avessimo amato Dio, ma perché egli stesso il primo amò noi, e mandò il suo Figliuolo, propiziazione pe' nostri peccati (Gv. 4, 9-10). Dice, che apparì la carità di Dio in noi, e incontanente spiega, che cosa è la carità, cioè Dio stesso: Dio è carità. Apparì dunque Dio in noi. E come apparì Dio in noi? Poiché egli stesso per primo ci ha amato. Dunque, amandoci, mise se stesso in noi: se stesso amante, dico, se stesso carità. Ci diede dunque la sua natura. Che cosa è dare altrui la propria natura, se non gene. rare dei figliuoli? La carità dunque è da Dio (1 Gv. 4, 7), «poiché Dio è da Dio»; Dio pose Iddio in noi. Di che, seguita: Ed ognuno che ama è nato da Dio, e conosce Iddio, poiché Iddio è carità (1 Gv. 4, 7-8).
Vedete come la carità faccia conoscere il proprio oggetto, cioè Dio? Siccome dunque la fede propone a principio l'oggetto della carità, così la carità rende viva la fede, per la quale l'uomo vive e conosce l'oggetto della carità nella sua forma di carità. E come la fede fa sussistere in noi le cose che speriamo, come dice Paolo commentato dal Dottore Angelico; così la carità fa sussistere in noi il proprio oggetto, che prossimamente è Dio nella sua forma di carità. Stupiamo: Iddio, come carità sussistente in noi, è la nostra carità. Una dunque è la carità: in Dio e in noi è d'ugual natura, di ugual grandezza, d'uguale infinità, perché è sempre Iddio in sé ed in noi; benché l'atto che corrisponde da nostra parte verso questa carità posta in noi, verso Iddio in noi vivente, sia di necessità limitato, e quindi essenzialmente, infinitamente diverso dall'atto di Dio medesimo. Ché altra cosa è la carità immanente in noi, altro l'atto nostro con cui in essa ci teniamo. Onde il citato Apostolo dell'amore distingue queste due cose, quantunque correlative, il rimanere Dio, cioè la carità in noi, e il rimanere noi nella carità: Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui (Gv. 4, 16). A distinguere le quali due cose aveva imparato dal divino Maestro, che parlando di chi avesse mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, aveva detto non solo in me rimane, ma ancora aveva soggiunto: e io in lui (Gv. 6,57). La carità rimane sempre quella che è: non perde la sua natura, è sempre Dio, sempre infinita: Dio carità, dimorante nella sua creatura finita. Egli la conosce questa sua creatura finita, sa ricercarne l'intime viscere, toccarne il fondo, penetrarla tutta, regnare in ogni sua parte.
* Pagine spirituali dagli scritti di A. R. Ed. Sodalitas, Milano 1927, pp. 86-89.
Piero Bargellini *
E' nato a Firenze nel 1897 e da Firenze ha preso il gusto dell'arte e la ricchezza spirituale che caratterizzano i suoi scritti. Il suo cattolicesimo è sempre stato fermo e volto al servizio del prossimo. Numerosi sono i suoi libri specialmente di carattere letterario e agio grafico, tra cui ricordiamo Santi come uomini, I Santi del giorno, S. Francesco d'Assisi; fondò e diresse una rivista letteraria di intonazione nettamente cristiana: Il Frontespizio. La sua intensa attività di scrittore non gli impedisce di partecipare alla vita politica in cui trasfonde la sua testimonianza di cristiano. Il brano qui riportato è tolto da uno dei suoi ultimi libri: Gesù di Nazaret.
Non ci ardeva forse il cuore in petto - dicevano i discepoli, ad Emmaus - mentre per strada ci parlava? (Lc. 24, 32). Gesù era il vero amico, che comunicava con i loro cuori.
Gli uomini hanno bisogno di aiuto, hanno bisogno di guida, ma specialmente han bisogno d'amicizia.
L'amico è per il giovane il modello da imitare e l'ideale da raggiungere. Verrà il momento della delusione, quando l'amico si rivelerà nella sua limitatezza e scoprirà le sue fatali deficienze. Ma intanto, prima di allora, l'amicizia sarà il legame più forte fra i giovani, i quali porranno sempre - in un'epoca della loro vita - l'amicizia al culmine della loro esperienza umana.
Invano i genitori - onesti e solleciti quanto si voglia credono di potere essere gli amici dei propri figli.
Invano i maestri - bravi e intelligenti quanto si voglia credono di potere essere gli amici dei loro discepoli.
Soltanto Gesù può essere ed è il vero amico dei giovani. Egli infatti è loro coetaneo nella indeclinabile gioventù del suo insegnamento; è il loro esempio nell'incantevole freschezza delle sue opere.
Egli ispira confidenza col suo infinito altruismo, sollecita la fiducia col suo sublime comportamento.
Non per nulla ha detto: «Il mio giogo è soave", perché non ha né la pesantezza degl'interessi mondani né la durezza dell'egoismo umano.
Gesù è il vero amico; l'amico che non delude mai; l'amico che non tradisce; l'amico che non abbandona nessuno lungo il cammino della vita. L'unico amico che può seguire l'uomo dalla culla alla bara, in tutte l'età, in tutte le circostanze, in tutti i frangenti, in tutti i dolori, perché la sua stessa vita è stata sempre esemplare e sublime, dalla grotta di Betlem al Monte Calvario.
Non per nulla Egli disse di sé: «Io sono la via, la vita, la verità». In lui tutti gli uomini trovano l'amico veritiero, soccorrevo le e sicuro.
Specialmente i giovani trovano in lui l'amico di cui han bisogno: un amico delicato, affabile, dolce. Amico buono, che ispira pensieri luminosi, che sollecita sentimenti generosi, che sprona ad opere giuste, che infervora a ideali alti.
Mantiene casta la mente senza assopirla, puro il cuore senza raggelarlo, adamantina la coscienza senza indurirla.
Beato il giovane che si sceglie come amico Gesù. Il suo bisogno d'amicizia disinteressata e generosa verrà appagato totalmente. Avrà trovato il compagno ideale, col quale potrà confidarsi senza reticenza, confessarsi senza vergogna, affidarsi senza timore, l'unico che rimarrà al suo fianco anche quando gli altri amici occasionali si allontaneranno per i loro personali interessi o lo abbandoneranno per viltà.
«Guai all'uomo solo!» avverte la Bibbia. Ma l'uomo non è più solo da quando Gesù è venuto a prendere sopra di sé tutte le sue colpe e tutte le sue miserie.
Soprattutto non sono più soli i giovani, ai quali Gesù, l'amico di tutti e di sempre, sorride, dicendo agli Apostoli: «Lasciate che i giovani vengano a me».
* Gesù di Nazareth, Ed. Messaggero Padova, 1971, pp. 217-219.