Mariagrazia Zambon
PASSIONE
Viaggio fra i missionari del Pime in Bangladesh
PER UN POPOLO
EMI - 2005
7. Scuole e case per i tribali |
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7. SCUOLE E CASE PER I TRIBALI
Ci alziamo presto questa mattina. Non è ancora l'alba e p. Paolo Ciceri ha già acceso il motore della sua Toyota: mi aspetta in macchina per portarmi a visitare la scuola per i tribali e alcuni villaggi appena fuori Rashjahi, da lui voluti e costruiti.
Più ci inoltriamo tra campi e canneti e più la nebbia che avvolge ogni cosa si fa fitta. Qui di notte, durante i mesi invernali, la temperatura scende parecchio e fa freddo. Frettolosi e infreddoliti, avvolti nei loro panni di lana, alcuni bambini camminano velocemente verso la scuola. Molti di loro non hanno né calze né scarpe, ma semplici infradito di plastica. Alla nostra vista accelerano il passo per non far tardi a scuola.
Edificio che, attraversando palme e banani, ci appare all'improvviso: a più piani, nuovo, tutto pitturato di rosa.
È la "Virgin Mary School", costruita nel 2001 grazie al finanziamento ricevuto dalla "Siderurgica Fiorentina": una scuola solo per tribali, composta dalle otto classi della pre-scuola e delle elementari, di cui p. Paolo va altamente fiero.
Missionario del Pime sessantatreenne, brianzolo, dal 1973 in Bangladesh a servizio dei tribali, per i quali ha da subito lottato perché non si sentissero emarginati nella società bengalese.
Per farli maturare nell'autostima e per promuovere la loro qualità della vita sentì l'esigenza di costruire per loro case e scuole. Desiderio che riuscì ad attuare graiie all'aiuto di tanti benefattori.
Entriamo in una classe dove una maestra molto elegante nel suo sari verde brillante sta indicando sulla lavagna i caratteri della lingua bengalese ad una squadra di bambini e bambine attentissimi, seduti ben ordinati nei loro banchi in legno. Appena ci vedono scattano in piedi e in un coro all'unisono salutano con grande rispetto.
P. Paolo improvvisa qualche domanda in bengalese e loro rispondono a gara tutti eccitati e fieri.
«Sai, - dice mentre la maestra riprende la lezione in un silenzio assoluto - per questi tribali la lingua madre e la cultura seminomade sono una grande palla al piede. Hanno bisogno di una scuola speciale prima di poter accedere alla scuola governativa, dove essere apprezzati e sentirsi alla pari degli altri studenti, altrimenti continuano a portarsi dentro un forte senso di inferiorità, dato che vengono presi in giro dai compagni bengalesi, perché sbagliano la pronuncia, perché puzzano di maiale... e presto o tardi abbandonano la scuola.
Quando sono arrivato a Rajshahi questi aborigeni si autodisprezzavano: "Siamo gente di giungla, non valiamo niente", poi hanno cominciato a vedere che i loro figli parlavano il bengalese, facevano discorsi logici, erano meno emotivi e ora sono ben orgogliosi di averli mandati a scuola. Ma non ti dico che fatica per convincerli... all'inizio mi sono dovuto imporre, obbligandoli e controllandoli a vista d'occhio.
Io stesso vengo da una famiglia poverissima e ho sperimentato cosa vuol dire essere "ultimo" a scuola ed essere preso in giro. A partire dalla mia esperienza voglio dar loro dignità e una carica positiva per il futuro, puntando in alto.
Pensa che proprio quest'anno con immensa gioia sono riuscito ad iscrivere alla Bangladesh National University, e per di più nella facoltà di inglese, una nostra studentessa paharia che aveva terminato l'Intermediate College con i massimi voti. Si tratta di una facoltà così ambita e affollata che vi entrano solo i super raccomandati o i migliori: su 8.000 domande accettano solo 250 studenti. Non è un bel segno di speranza?
Ma non pensare che sia facile. Qui ci devi stare una vita per vederne i frutti».
Per far crescere un popolo e offrire un futuro dignitoso, però, non è sufficiente l'istruzione, occorre educare, formare, dare la possibilità di avere stabilità e di possedere un'abitazione.
È per questo che fin dall'inizio della presenza dei missionari del Pime a Rajshahi si è pensato di aiutare i tribali ad avere un loro spazio dove vivere in maniera dignitosa.
P. Pinos, nel suo libro Il mercato delle stelle, ricordando l'arrivo nei tribali in città, di ritorno dopo la guerra d'Indipendenza, racconta: «La scarpata della ferrovia divenne luogo di sosta dei nuovi arrivati. Altri più coraggiosi si accomodarono sotto gli alberi di qualche frutteto, per esserne ben presto scacciati dai padroni armati di bastoni e aiutati dai loro cani. Tra l'altro questi luoghi di sosta diventavano in men che non si dica maleodoranti, per il semplice fatto che nella cultura tribale non era mai esistita quella cosa che noi chiamiamo latrina.
A Rajshahi gli uomini erano riusciti a trovare lavoro come sterratori e in altre umili incombenze, ma molto spesso, tornando a casa alla sera (se casa si può chiamare la scarpata di una ferrovia), scoprivano che durante la giornata le loro donne e i loro bambini erano stati allontanati da essa chissà da chi ed erano finiti chissà dove.
La Caritas riuscì a comprare un bel frutteto dall'altra parte della ferrovia: proprio il frutteto dal quale varie volte i Santal erano stati scacciati a bastonate.
P. Faustino Cescato, l'allora direttore della Caritas locale, senza abbattere una sola pianta vi eresse 70 casette con muri di terra e con tetto e veranda di lamiera e, senza badare alla cultura tribale, provvide ogni casetta della sua latrina. Vi costruì anche una scuola con ampio cortile, vi sistemò pompe d'acqua potabile e diramò regole di vita.
Il villaggio nel frutteto servì a richiamare altra povera gente e p. Faustino si vide costretto a comprare altri tre terreni per sistemarvi altrettante comunità tribali inurbate.
A suo tempo, dopo il trasferimento di p. Faustino a Dinajpur, il nuovo parroco p. Paolo Ciceri costruì altri sei villaggi suburbani. Il risultato è stato che questa povera gente, invece di divenire la zavorra di una suburra, ha avuto la grazia di trovare una sistemazione umana, lavoro, assistenza religiosa, scolastica e medica».
«È vero, - conferma p. Ciceri - con un catechista ho cominciato a girare per la zona a scovare cristiani tribali, sparpagliati tra i musulmani, che erano i padroni delle terre su cui risiedevano e per cui lavoravano. Sembrava di essere ai tempi dei feudatari: ricevevano una paga miserabile e avevano la proibizione di costruirsi una casa regolare, vivevano in tuguri come cucce di cani ai confini dei terreni da proteggere, non erano liberi di mangiare carne di maiale o altri animali considerati impuri dall'islam. "Bisogna radunarli e restituire loro dignità!" pensai immediatamente. E così è stato. Monta in macchina che ti porto a vedere».
Lasciati i bambini intenti a scrivere sui loro quadernetti, saliamo nuovamente sulla Toyota.
Le strette strade di campagna sono asfaltate, il traffico non è intenso, ma occorre stare attenti e soprattutto bisogna avere una grande pazienza: si può incontrare di tutto. Il sole si è alzato e lungo i bordi pascola tranquillo il bestiame, mentre galline scorrazzano correndo all'impazzata da una parte all'altra della strada. Inoltre tratti d'asfalto vengono usati come aia dove battere e seccare il raccolto. Allora ci si ferma e si aspetta che gli uomini con tutta calma radunino i grani di riso per aprirci un varco.
È così che giungiamo a Miapur: un gruppetto di poche case in muratura, piccole ma asciutte, con i cortiletti ben spazzati e puliti; stuoie e coperte stese al sole, bambine con le treccine ben fatte, maschietti con i nasini puliti e i vestitini poveri ma ben curati, un gran di spiego di occhioni infantili, qualche donna accoccolata sui talloni ha acceso il fuoco in un angolo del cortiletto, pronta a preparare un pasto frugale per la sua famiglia, a base di riso e cavolo.
È un villaggio di Paharia, tribù giunta dalle montagne i cui membri, probabilmente ingaggiati ai tempi degli inglesi come legionari del Bengala, con la partenza degli inglesi cominciarono a vivere come randagi, dove capitava, cacciati e odiati da tutti.
Da sette anni queste quindici famiglie abitano in casette dignitose e linde. Dapprima le capanne erano in fango e paglia, ma dovevano essere rifatte ogni anno dopo le piogge e inoltre erano apportatrici di malattie, in primis la tubercolosi.
È stata suor Silvia Gallina a spronare il cambiamento.
Lei stessa, nel 1991, scriveva ad amici e benefattori: «Il motivo che ci ha portato a iniziare e promuovere questo progetto è stata l'enorme diffusione della TBC e della kalajhor. Malattie che portavano la morte a molti bambini. Si è visto che dove abbiamo costruito casette in muratura tale malattia è scomparsa, i medici ci hanno detto che il piccolo insetto, diffusore della kalajhor, si annida nelle fessure delle case costruite con il fango e durante la notte punge le persone che abitano alloro interno. Tutto serve per promuovere l'uomo, creatura tanto amata da Gesù Cristo, fino a dare la vita per noi. Questo villaggio quando piove si allaga con molta facilità e le capanne trasudano umidità. Questa povera gente dorme sul pavimento perché spesso è priva di letto e di stuoia. Il pavimento è fatto di fango battuto e quando piove diventa melmoso.
Potete immaginare in quali condizioni si vengono a trovare questi nostri fratelli. Pensate quando piove per sette mesi... se questa gente avesse una casa soffrirebbe meno e anche molte malattie sarebbero debellate, almeno in parte. Dove abbiamo costruito le casette in mattoni !'infezione della "febbre nera" è scomparsa e questo è stato davvero un dono della provvidenza».
«Adesso vedi tutto secco, solo terra e un gran polverone, ma durante le piogge è tutta un'altra cosa - riprende p. Paolo. - L'alluvione dell'anno scorso, per esempio, ci ha messi a dura prova: i piedi sempre a mollo nell'acqua, il cielo sempre plumbeo, i nervi logorati dalle piogge senza tregua, senza corrente elettrica.
Benché non fossimo nelle zone di maggior devastazione, pure noi siamo andati sott'acqua diverse volte e abbiamo dovuto ricorrere alle pompe giorno e notte.
Nei villaggi di Miapur, Kolimnogor, Kadipur, Morsul, Koikuri, dove a suo tempo sgobbammo tantissimo per alzare il livello del terreno e costruire case in muratura alla nostra gente, non ci sono stati danni, nessuno è morto, nessuno si è ammalato. Quante lacrime invece nei villaggi con le case di terra e di paglia: il 40% delle case sono crollate e che pena andare a cercare bambù sotto la pioggia e rimediare alla meglio con teloni di plastica. Nell'emergenza le nostre chiese e scuole, sempre molto alte, sono state un'ancora di salvezza per molti, e non solo cristiani. Quanto correre nell'acqua e nel fango per procurare cibo e acqua. Ma ce l'abbiamo fatta: la gente si è salvata. Nei momenti di maggior scoraggiamento e depressione sono stati i bambini a infondere coraggio con la loro invincibile gaiezza e voglia di vivere: invece di lamentarsi si mettevano a pescare i pesciolini con ogni sorta di mezzi, come sari dismessi, pezzi di zanzariera, con incredibile fantasia.
Nel novembre del 2003 è stato ancora peggio.
Ho dovuto fare letteralmente il buon pastore che va in cerca delle pecorelle smarrite e in serio pericolo di vita. Si trattava di decine di famiglie Santal, Paharia e Oraon finite su alcune isole in mezzo al Gange, a mezz' ora di barca a motore dalla sponda di Rajshahi. Circa un anno prima le autorità governative, servendosi dei militari, avevano fatto sloggiare con la forza tutti gli occupanti abusivi appollaiati sulla sponda del Gange, considerata il Belvedere della città, per farne un luogo di commercio e di attrazione turistica. Per convincere gli abusivi ad andarsene usarono anche l'inganno dicendo loro che se fossero andati ad abitare le "ciore" (isole), ancora terra di nessuno, ne sarebbero divenuti un giorno proprietari legittimi con tanto di documenti regolari. Ai loro uomini fu anche promesso un lavoro ben pagato sui barconi che fanno la spola tra l'India e il Bangladesh con ogni genere di merci e tante altre promesse, insomma, avrebbero trovato la montagna d'oro che da sempre sognavano che li avrebbe fatti ricchi e felici. I tribali credono ancora alle favole e abboccano facilmente.
In realtà si trattava di banchi di sabbia instabili, non coltivabili, di nessun valore. Infatti è bastato che la corrente del fiume cambiasse direzione perché si ritrovassero
nel serio pericolo di essere spazzati via. Se un loro bambino prendeva la dissenteria non aveva scampo. Erano tagliati fuori dalle scuole, dagli ospedali e da qualsiasi forma di vita civile, senza parlare dell'isolamento che narcotizza il cervello.
Dopo 34 anni di Bangladesh pensavo di aver visto tutta la miseria di questo paese ma mi sbagliavo. Quello che ho visto sulle "ciore" è quanto di più assurdo e disumano abbia mai visto in vita mia. Nelle stalle delle missioni le vacche sono alloggiate molto meglio. Non avevamo altra scelta e non potevamo certo cavarcela con sorrisetti di simpatia.
Li abbiamo accolti nei nostri villaggi e li abbiamo aiutati a costruire piccole e semplici case di bambù e paglia, con la lamiera per tetto, e li abbiamo forniti di coperte e zanzariere. Ora sono molto contenti e i loro bambini possono andare a scuola. Ho inoltre aiutato parecchi di loro a comprarsi un risciò che, anche se faticoso, dà un lavoro sicuro.
Questo è uno dei tanti esempi che si potrebbero raccontare.
Quel villaggio laggiù è composto da 120 famiglie raccolte lungo la ferrovia, negli edifici abbandonati, ai margini delle scuole. Piano piano hanno imparato a stare con altri, a rispettarsi, a credere in se stessi, a conoscere il Dio della misericordia e dell'amore. E dove si vede Dio comincia veramente la vita.
Erano pagani amorali: abbiamo dato loro credibilità, abbiamo tentato l'assurdo nel nome del Signore e abbiamo vinto. Vedono lavorare te per loro e a poco a poco vincono la loro pigrizia e il loro egoismo.
Da violenti ubriaconi di alcolici hanno cominciato ad ubriacarsi di voglia di vivere.
Qui come altrove, abbiamo iniziato con gente emarginata, reietta da tutti, ma dopo una sistematica e cocciuta cura abbiamo cominciato a vederne i frutti.
Adesso "danno la birra" ai bengalesi, in lingua, cultura, stile di vita.
Realmente li ammiro - dice il missionario con gli occhi luccicanti. - Questa gente sta facendo notevoli progressi su tutti i fronti, sia morale che spirituale, sia educativo che economico. Notiamo maggiore stabilità e armonia nelle famiglie, una pacifica convivenza delle varie etnie, cresce sempre più il numero di giovani che ottengono buoni impieghi nelle industrie della capitale e di ragazze che lavorano come infermiere o maestre.
C'è anche un cambiamento positivo di mentalità: per esempio i Santal una volta vivevano alla giornata senza preoccuparsi del domani, senza un progetto per il futuro e se capitava di guadagnare qualcosa in più lo spendevano subito nel bere. Oggi invece hanno imparato a risparmiare regolarmente, per poi comprarsi un letto, invece che dormire per terra, una zanzariera, una bicicletta, migliorare la casa per avere più luce e più aria, comprare una capra o un vitello da allevare.
Ma soprattutto oggi non c'è più bisogno di infiniti sforzi per persuadere i genitori a mandare i figli a scuola, anzi sono disposti a spendere e a fare qualsiasi sacrificio pur di dare ai loro figli l'educazione migliore possibile».
Mentre guida per rientrare in missione guardo questo uomo dai tratti burberi: spesso distrutto dal caldo o dall'umidità, dalla fatica o dallo scoraggiamento, ma ancor oggi pieno di speranza e di gioia perché venuto in questo piccolo, sconosciuto angolo del mondo a restituire dignità e libertà, nel nome del Signore, scommettendo su queste persone perché in Lui tutto è possibile.
Mi tornano in mente le parole di p. Cesare Pesce: «Su una di quelle strade, una fangosa strada del Bengala, io ho incontrato un uomo. Era solo. Mi sono fatto suo compagno di viaggio e l'ho condotto tra quella folla immensa.
Era pellegrino, sfinito dalla fame. Gli ho insegnato a liberarsi da quello spettro col lavoro onesto, umano, non massacrante. Era angariato dai potenti, dai ricchi. r.:ho aiutato a liberarsi. Era in preda all' odio e gli ho dato amore.
Era disperato e io, messaggero di gioia, gli ho donato la gioia di vivere. Davvero ho fatto così? Almeno ho tentato?
Se sì, sono anch'io nel numero dei costruttori del regno dei giusti. Se no, ahimè, ho sbagliato tutto».
Nascita della diocesi di Rajshahi
Le missioni sono una storia infinita di sofferenze, di vani tentativi, di sangue sparso, ma anche di successi. Ve ne presento uno.
Il 1947 portò l'indipendenza alla grande colonia inglese dell'India, ma anche lacrime e sangue a milioni di persone perché essa non portò all'esistenza di un unico stato indipendente, bensì di due: il giorno stesso della liberazione nazionale milioni di induisti, invece di trovarsi liberi, scoprirono di essere abitanti indesiderati in un territorio assegnato ai musulmani... e viceversa. Iniziò l'esodo dei non-musulmani verso l'India e dei musulmani verso il Pakistan: 17 milioni di persone in movimento, con violenze, assalti, saccheggi e massacri che in pochi giorni fecero mezzo milione di morti. In mezzo a questa paura generale, numerosi tribali si diressero verso le città e molti si stabilirono a Rajshahi.
In quei tempi io risiedevo nella missione di Andharkota, a circa 8 chilometri da quella zona, e non c'era nulla che potessi fare per quella gente se non comperare per essa un terreno (tre quarti di ettaro) su cui stabilirsi. Fatta la compera, il lotto divenne immediatamente un brulichio di gente, la quale pian piano vi costruì un gruppo di capanne traballanti. lo non fui da meno: vi costruii una chiesetta con muri di terra e tetto di paglia.
Quando fu pronta, quei poveri figli d'Israele ebbero finalmente la loro prima messa e ci fu gran festa. Era il 16 luglio 1957, festa della Madonna del Carmine.
Noi abbiamo l'impressione che le cose belle, quando arrivano, arrivino con grande lentezza. Ma non fu così a Rajshahi: tante ottime cose sono successe in fretta. Anche se questa città, fino a quel 16 luglio, non aveva mai figurato sulle mappe della Chiesa cattolica, pure essa era una città importante, perché capoluogo di provincia. E fu appunto per la sua importanza politica che la Caritas del Bangladesh decise di stabilirvi un suo centro e bontà volle che la gestione di detto centro fosse assegnata al missionario trevigiano p. Faustino Cescato. Non era un uomo di molte parole, in compenso aveva buon occhio e dalla finestra del suo centro non poté non notare la miseria che regnava nel nostro lotto. Notò e agì.
Il tempo passò, la tettoia venne raddoppiata, vi si costruì a fianco un convento vero e proprio, poi una scuola, la chiesetta nel 1983 diventa parrocchia e nel 1990 cattedrale della nuova diocesi di Rajshahi.
. Nuovo vescovo fu nominato p. Patrick D'RosarioJ nato nella diocesi di Chittagong nel 1943J pastore di ventitremila cattoliciJ di cui undicimila bengalesi e dodicimila di varie tribù, quali Santal, Mahali, Munda e Oraon.
p. Luigi Pinos
8. LA NOVARA TECHNICAL SCHOOL
È pomeriggio inoltrato.
Nel grande complesso del Novara Centre di Suihari formato da officine, edifici di diverse misure, campi coltivati, vialetti ben puliti e prati all'inglese, vige una quiete che sorprende.
Dopo essersi abituati a vedere gente spuntare da tutte le parti, sempre in movimento (immaginatevi 140 milioni di abitanti su un territorio grande quanto il nord Italia: questo è il Bangladesh), questo ampio spazio vuoto impressiona. Si respira pace, ordine, tranquillità.
Spuntano le prime stelle e dai capannoni fuori esce lo scintillare delle saldatrici, il rumore acuto dei torni, il par- . lottare sommesso di giovani ancora al lavoro.
Le esercitazioni pratiche, dopo le lezioni teoriche del mattino, sono terminate, ma c'è chi, per guadagnare qualcosa da inviare a casa, impiega parte del suo tempo libero nei lavori di produzione che la scuola esegue su commissioni esterne.
Sono alcuni degli 80 ragazzi che studiano, lavorano e abitano, durante i tre anni di corso in meccanica, falegnameria, motoristica o elettrotecnica, in questa che "tuttora è l'unica scuola tecnica di tutto il nord Bengala: la Novara Technical School, mi dice trionfante Massimo Cattaneo missionario laico del Pime, in Bangladesh dal 1999 e attuale direttore della scuola - accogliendomi nel suo studio, mentre sta preparando al computer gli orari delle lezioni e la programmazione didattica per il nuovo anno scolastico.
È lui ad introdurmi nella storia di questo complesso e multiforme Centro, situato nella periferia settentrionale di Dinajpur.
"La geniale intuizione è nata in collaborazione coi cittadini di Novara più di quarantacinque anni fa.
Era l'anno 1960 quando la FAO lanciava la prima "Campagna contro la fame nel mondo" e denunciava con termini e statistiche impressionanti la realtà del sottosviluppo e della sottoalimentazione di gran parte dell'umanità.
Tra i tanti a raccogliere questa provocazione, a Novara ci fu anche don Ercole Scolari, assistente diocesano dei giovani dell'Azione Cattolica. Con lui, numerosi studenti si resero conto che di fronte alla drammatica situazione di gran parte dell'umanità non si poteva restare indifferenti o limitarsi a facili commozioni o a inutili analisi sociologiche, scaricando cause e responsabilità a una storia passata.
La prima raccolta di fondi, avvenuta con il coordinamento della FAO, diede risultati sorprendenti e così si cominciò a progettare un'opera destinata a restare nel tempo, che contribuisse alla costruzione economica e sociale di un popolo, cooperando con personale italiano presente sul luogo.
Si optò per l'allora Pakistan Orientale, considerato uno dei paesi più poveri del pianeta, ideando una sorta di gemellaggio tra la diocesi e la città di Novara e la diocesi di Dinajpur per realizzare quello che sarà chiamato il Novara Centre, che ora comprende la Novara Technical School (scuola tecnica professionale con 120 studenti, in prevalenza di origine tribale e provenienti dai villaggi del nord bengala), la scuola elementare (con 400 alunni), la scuola di economia domestica per le ragazze, la parrocchia con i suoi servizi sociali, il seminario minore e il noviziato delle suore Shanti Rani.
Si trattò allora di una scommessa che poteva sembrare persa in partenza, ma che, grazie alla costante generosità di molti novaresi e grazie alla pazienza e all'impegno generoso e competente dei missionari del Pime è divenuta una scuola professionale tra le più stimate di tutta la nazione, dalle autorità civili e dai direttori di industrie e officine.
Il Novara Centre iniziò con una scuola elementare in capannoni in bambù, a poco a poco sostituiti da costruzioni in muratura; poi nacquero gli ostelli per gli studenti, gli edifici scolastici, le abitazioni dei padri e delle suore, la chiesa, le casette per insegnanti e collaboratori, i campi da gioco.
Dal 1966 gli sforzi si concentrarono nella costruzione dei capannoni laboratorio della scuola tecnica, pensata e costruita da p. Faustino Cescato e da p. Angelo Villa, ma poi diretta dai missionari laici del Pime.
Fu l'arrivo di fratel Mario Fardin che consentì l'avvio di un primo corso regolare di falegnameria in una minuscola casetta che poi diventerà un laboratorio ben attrezzato.
Due volontari inglesi, Roger e John, collaborarono come ingegneri e insegnanti per gettare le basi di un corso meccanico.
Sarà poi fratel Giovanni Pessina, perito meccanico, ad impostare e strutturare il corso. Giungevano intanto dall'Italia i primi macchinari, tra cui quattro torni, due saldatrici, una fresatrice, una limatrice e tutta la strumentazione necessaria per le lavorazioni base del corso di falegnameria.
Gli spazi non erano mai abbastanza e fervevano i lavori per nuove costruzioni. Necessitavano mattoni, sassi, ferro per il cemento armato. Il ferro giunse dall'Italia; i mattoni si fecero in una fornace realizzata all'interno del Novara Centre: mattoni di fango, cotti al sole, con la sigla NTS. I sassi si recuperarono spaccando i mattoni. Dai villaggi vennero uomini e donne e qui trovarono un lavoro, un salario, un piatto di riso.
Anche gli alunni della scuola tecnica vennero via via aumentando e per loro sorse il primo ostello con dormitori, cucina e aule.
Alla fine del 1969 al corso di falegnameria si diplomò il primo gruppo di nove giovani, che lasciarono la scuola muniti di una cassetta di attrezzi che permise loro un primo lavoro artigianale nei propri villaggi. Uno di essi restòalla scuola come istruttore, iniziando così quel lungo percorso che porterà ad avere un corpo docente interamente bengalese.
Si perfezionò anche l'attività didattica con un'iniziativa importante per questa realtà: fratel Pessina tradusse in bengalese il manuale per il corso di motoristica.
Fratel Enrico Bertazzoli impostò anche il corso di elettrotecnica. Dall'India arrivò fratel Ettore Caserini, perito meccanico, che assunse la direzione del corso di meccanica e di motoristica, nuova specializzazione resa necessaria dal progresso della motorizzazione agricola. Si costruì il quarto capannone destinato a tale specializzazione, il cui sviluppo costituì anche un aiuto alla ricostruzione del Paese.
La Novara Technical School risultò così completa nelle sue quattro sezioni: falegnameria, meccanica, elettrotecnica e motoristica.
Anche gli alunni aumentarono e si provvide a dare loro ospitalità: nel 1973 venne costruito un nuovo stabile a due piani in cui trovano tuttora spazio aule e dormitori, per una capacità totale di 120 alunni, di cui ottanta interni. Ad alcuni di essi, al termine dei tre anni di corso, venne offerta la possibilità di corsi sussidiari e integrativi, sia alla scuola sia in altri centri. Continuò così la formazione di istruttori che, con il passare degli anni, diventeranno la struttura portante della scuola.
Nello stesso anno si diplomò il primo gruppo di allievi meccanici. Le autorità locali civili, invitate per la cerimonia di distribuzione dei diplomi, lodarono largamente la Novara Technical School per l'attrezzatura, l'organizzazione e l'ordine.
Gli anni successivi furono un continuo consolidamento della struttura. Venne aperta una sotto-sezione di radiotecnica e installato un generatore elettrico, dono dell'associazione Mani Tese, che tuttora consente l'uso dei macchinari anche nelle (tante) ore in cui si interrompe l'erogazione dell' energia elettrica.
Per dare continuità all'insegnamento e rendere stabili gli insegnanti, nel 197 4 iniziò la costruzione di un quartiere residenziale per gli istruttori, che mise a disposizione 12 appartamenti in muratura».
Bussa alla porta un uomo. Scuro di carnagione, longilineo, sembra ancora più magro avvolto nel suo langhi tipico vestito maschile, una striscia di stoffa lunga fino ai piedi che si gira attorno alla vita con un gran nodo all'altezza dell'ombelico, - occhi di un marrone profondo, sorriso accogliente.
«Ecco - ne approfitta Massimo - questo è Lazarus, il responsabile della produzione e del rifornimento materiale e attrezzature nella sezione Meccanica, un uomo molto prezioso per noi, semplice e onesto. È cresciuto qui fin da ragazzo, ci si può fidare di lui ciecamente, ha passione ed entusiasmo. Considera questo luogo suo, ci tiene alla scuola, ai ragazzi, all'ambiente. Pensa, è nato a lessore, nella zona meridionale del Bangladesh, ma poi è venuto qui per studiare (è stato uno dei primissimi alunni della scuola tecnica) e qui è rimasto. Ora è sposato e ha due figli: un maschio (Shetu) in quarta elementare e una femmina (Chiara) che l'anno prossimo andrà in prima elementare.
Ha visto passare la lunga fila di tutti i direttori di questa scuola e di questa scuola ha vissuto tutte le vicende del passato, gioendo per quelle belle e rammaricandosi per quelle tristi. È uno dei più fidati e affidabili membri dello staff della scuola tecnica, uno dei fedelissimi, che ha davvero a cuore le sorti della scuola in cui è cresciuto e da cui ha ricevuto tanto. Uno stipendio dopo l'altro ha messo via quello che è servito per costruirsi piano piano una bellissima casa in muratura; ha cominciato le fondamenta più di dieci anni fa e alcuni dettagli ancora adesso non sono finiti. Tutto è predisposto per costruire il secondo piano, dove un giorno andrà ad abitare la famiglia del figlio primogenito, ma questa è storia del futuro».
Lazarus capisce che sta parlando di lui e saluta con un ampio sorriso, incrociando le mani al petto. Si scusa per aver interrotto, si scambiano qualche battuta e se ne va silenziosamente.
«Vedi, è importante uno scambio di opinioni, la collaborazione con il personale, il continuo aggiornamento per migliorare l'insegnamento, le strutture, le attrezzature, soprattutto qui in Bangladesh, in un Paese in piena fase di sviluppo, in cui il progresso tecnologico sta facendo passi da gigante. È quanto mai indispensabile per una scuola restare al passo con i tempi e dare agli studenti gli strumenti necessari per rispondere al meglio alle richieste del mondo del lavoro.
L'ultimo intervento di ristrutturazione è stato avviato nel 2000 da p. Giovanni Beretta con l'appoggio di p. Giulio Berutti. Nuovi macchinari e attrezzature sono stati introdotti per migliorare il livello tecnico dei corsi, soprattutto nei settori della meccanica e della motoristica. Sono stati ampliati i capannoni dei quattro settori per dare spazio ai magazzini, alle zone per i lavori di produzione e ai nuovi macchinari inviati dall'Italia. È stato costruito e inaugurato nel 2003 un nuovo edificio di tre piani per ospitare le classi e gli uffici. È stato ristrutturato l'ostello, attrezzandolo di nuovi servizi igienici e della cucina.
In questi ultimi anni l'attenzione della scuola non si è fermata alla sola durata del corso scolastico; stiamo cercando di seguire i nostri studenti anche nella successiva e non semplice ricerca di un lavoro. Per aiutare concretamente gli studenti appena diplomati e in cerca del primo impiego abbiamo avviato corsi di tirocinio in collaborazione con ditte esterne. Il tirocinio è collocato all'interno del programma del terzo anno e nella maggior parte dei casi si conclude felicemente con l'assunzione dello studente da parte della stessa ditta che lo ha ospitato.
Agli studenti che si recano a Dhaka per la prima volta in cerca di lavoro viene inoltre garantito un temporaneo supporto logistico per l'alloggio e il vitto, in modo da rendere più agevole la permanenza in una metropoli già problematica per molti altri aspetti».
Mi soffermo a guardare questo missionario laico, ultimo di una lunga serie a prendere in mano il "testimone" di questa scuola.
Nato 44 anni fa a Saronno, in provincia di Milano, appassionato di montagna e di deltaplano, il viso scolpito dall' ebbrezza del vento, occhi di un celeste che conquista non a caso qualche suo amico l'ha soprannominato "occhi di cielo" - ma cosa ci fa qui, in questo angolo di mondo?
«Sono passati ormai parecchi anni, ma ricordo ancora molto bene la domanda che rincorreva continuamente il mio vagabondare tra i voli in deltaplano e le arrampicate in montagna, gli studi al Politecnico e il lavoro nell'officina meccanica di famiglia, le corse in camper con gli amici e le sciate d'alta quota in solitaria: che cosa c'entra quel Gesù di cui sento parlare fin dalla mia infanzia con le cose che faccio, con il mio lavoro, con i miei studi, con quello che mangio, con quello che guardo, che ascolto, che dico...
A quei tempi in ogni modo ero troppo indaffarato per occuparmi di queste faccende, adatte piuttosto a specialisti della teologia: c'erano un sacco di posti ancora inesplorati tutti da visitare, c'era da cavalcare l'ascendenza che ti porta più in alto dell'ultimo volo, c'era da superare il quinto, il sesto, il settimo grado in parete e la ricerca di nuovi confini da oltrepassare andava sempre più in là.
Durante i miei primi viaggi in Africa intanto facevo esperienza diretta di situazioni di povertà e di bisogno così estreme da non riuscire più a restarne indifferente. Perché io avevo ricevuto così tanto e altri così poco? Il Vangelo indicava con assoluta chiarezza la via da seguire: il servizio e l'attenzione agli altri.
Il mio studio, la mia professione, l'amicizia con molte persone care, tutto diventava un nuovo strumento da mettere al servizio. Gratuitamente avevo ricevuto ed era arrivato il momento di restituire gratuitamente.
Adesso mi trovo in Bangladesh a lavorare nella Novara Technical School. Gli attrezzi che ho tra le mani sono gli stessi che usavo nella mia officina meccanica: martello, saldatrice, trapano, tornio, ma a muoverli c'è un motore che trasforma profondamente il modo di lavorare: non per guadagno o per far carriera, ma solo per il gusto di servi re. E il sapore della giornata cambia radicalmente!
La scelta laicale porta l'annuncio del Vangelo nella vita concreta, fatta di lavoro, di condivisione delle fatiche quotidiane. Si realizza mettendo a disposizione la propria professionalità, le proprie competenze in modo differente da quello a cui il mondo facilmente ci abitua. Qualcuno prima o poi comincerà a chiedersi perché invece di arrabbiarti sorridi, perché la porta della tua stanza resta sempre aperta a chi vuole incontrarti, perché continui a fidarti anche in mezzo a una moltitudine di imbroglioni.
Da sempre la scuola ha puntato non solo alla preparazione tecnica dei nostri studenti, ma anche alla loro formazione umana. La vita dell' ostello che accoglie i giovani allievi è ritmata da momenti di lavoro, di gioco, di preghiera insieme. È dentro queste attività quotidiane che vengono passati i valori cristiani della lealtà, dell'aiuto reciproco, della fedeltà agli impegni. Ultimamente ho tenuto i contatti con parecchie ditte esterne per preparare l'industriai training agli studenti del terzo anno. Con grande soddisfazione ho scoperto che molti dirigenti apprezzano i nostri ex studenti, ora impegnati presso di loro, soprattutto per il comportamento, l'onestà, la dedizione al lavoro.
La Chiesa, come il Vangelo, non sta sospesa nel cielo, ma ha i piedi ben ancorati su questa terra, è fatta di persone concrete, unite tra loro da rapporti di svariatissimo tipo: sociale, economico, politico, religioso, affettivo... È attraverso questi rapporti che il laico può arrivare a tutti i livelli in quel grande universo che è l'umanità. La sua competenza e la sua professione diventano uno strumento formidabile per portare una testimonianza anche negli ambienti più lontani. Quanti volti di manager, direttori, capireparto ho visto stupirsi perché il mio lavoro non viene retribuito con uno stipendio, non mi faccio le ferie tutti gli anni, non ho una casa tutta per me dove abitare stabilmente con la mia famiglia, perché ho rinunciato ad avere moglie e figli per consacrarmi a Dio...
Qualcuno forse avrà pensato che in mezzo agli stranieri ricchi ogni tanto può capitare anche qualche sciocco sconclusionato, ma qualcun altro potrebbe anche essersi posto domande più interessanti sui motivi e sugli effetti di una scelta un po' diversa da quella a cui solitamente siamo abituati a pensare.
Certo non tutto funziona come nelle fiabe. A volte il nostro lavoro appare insignificante, del tutto inutile di fronte a situazioni tanto ingiuste e tanto compromesse da togliere ogni speranza. Il Bangladesh è conosciuto come il Paese più corrotto del mondo e non è sempre facile accettare i compromessi da cui ti trovi circondato o !'impossibilità di far valere i diritti più semplici della persona. Spesso la ragione vincente è solo quella di chi ha più soldi.
A tenere sempre ingranata la marcia non è l'illusione che il mio lavoro cambierà le sorti del mondo, ma la consapevolezza che se in questa giornata non metto a disposizione quello che posso dare, resterà un buco che nessun altro riempirà. È con le nostre azioni di oggi che il Signore costruisce il futuro di domani».
Un ragazzo in cortile sta terminando di verniciare di bianco le porte da calcio che serviranno per i tornei dei ragazzi di un ostello nel nord del Bangladesh. Ammira il suo lavoro soddisfatto.
La sua qualifica tecnica speriamo lo aiuti in seguito a trovare un posto di lavoro dignitoso per affrontare con sicurezza il futuro di una nuova famiglia.
Il cielo ormai è un tappeto di stelle. Mi riecheggiano nelle orecchie le ultime parole di questo missionario laico che ha deciso di donare tutta la sua vita a Dio e ai fratelli in questa terra dimenticata: "È con le nostre azioni di oggi che il Signore costruisce il futuro di domani".