Mariagrazia Zambon
PASSIONE
Viaggio fra i missionari del Pime in Bangladesh
PER UN POPOLO
EMI - 2005
6. Impegno sanitario a Rajshahi |
6. IMPEGNO SANITARIO A RAJSHAHI
Il sole è cocente quando arriviamo a Rajshahi, città adagiata sulla riva sinistra del Gange - che fa da confine occidentale con l'India - e attraversata dalla ferrovia, lungo la cui scarpata ci sono un'infinità di basse casupole di argilla, paglia e bambù. Alcune donne con bambini sono intente a impastare "spiedini" di sterco bovino e pula di riso, che, seccato, sarà un ottimo combustibile per la cucina o per ricavare qualche soldo al bazar. Altre, incuranti del traffico caotico della città, che scorre accanto a loro, lavano le stoviglie e fanno il bagno vestite nei numerosi pukur posti tra la strada e i binari. Questi stagni sono una riserva artificiale indispensabile in questa stagione secca e la loro acqua risulta preziosa per lavare e lavarsi, abbeverare gli animali, allevare il pesce, per avere acqua per cucinare e spesso purtroppo - anche per bere. È un piacere spiare furtivamente con quanta precisione e discrezione in questi acquitrini donne e uomini si lavino accuratamente con il sapone, rimanendo immersi con i loro vestiti. E, quando escono, le donne con una disinvoltura regale raccolgono i loro splendidi capelli neri in lunghe trecce, lasciandoli asciugare al sole, si cambiano gli abiti bagnati e con un pudore senza uguali indossano freschi sari asciutti dai mille colori. Così, distratta da questa operazione che a mio avviso richiede una grande arte e perizia - quale fosse una danza armoniosa dove nulla è lasciato al caso, - tra uno strombazzare di clacson e una brusca sterzata per evitare camion e risciò che viaggiano senza alcuna regola stradale, per una stradina secondaria arriviamo al Sick Selther della città, gestito dalla suore di Maria Bambina e dai missionari del Pime, al!'interno della parrocchia del Cristo Redentore.
Una struttura semplice, composta da piccoli edifici a un piano, con diverse stanze che danno sul cortile comune centrale, abbellito da fiori e piccole piante. Accogliente, lindo, questo è il Centro di Accoglienza per i Malati, provenienti da villaggi vicini e lontani, fondato nel 1974 da suor Silvia Gallina - della comunità religiosa di Maria Bambina - con !'intento di aiutare gli ammalati poveri provenienti soprattutto dalla zona nord-ovest del Bangladesh.
È la stessa suor Silvia (morta ottantenne il 31 maggio del 2002, dopo 47 anni di Bangladesh) a scrivere anni addietro: «Appena finita la guerra d'indipendenza, eccomi trasferita ad Andharkota. Molti degli uomini più giovani della missione, attraverso l'opera persuasiva del padre missionario, avevano trovato un lavoro nel MedicaI College di Rajshahi (ospedale statale annesso alla facoltà di medicina) a quattro miglia dalla missione. In missione c'era un dispensario, ma a fatica poteva aiutare tutti i poveri ammalati. Capii che un semplice dispensario non bastava più. Allora presi la mia "Vespa" e cominciai a portare malati al MedicaI College, dove venivano visitati, venivano prescritti gli esami, effettuate le radiografie, ecc.
All'inizio le mie prestazioni per questi poveri ammalati, malnutriti e tante volte sporchi e malridotti, creavano sospetti da parte del personale medico che esclamava: "Che fa questa forestiera qui? Non vorrà mica farci tutti cristiani?" e così via. Ma quando si accorsero che la mia carità era per tutti, musulmani, indù, cristiani e pagani, cambiarono ritornello e cominciarono ad ammirare il nostro lavoro».
«All'inizio suor Silvia - racconta p. Stephen Gomes, prete bengalese che ha lavorato con lei - accompagnava sempre i malati dal dottore per un controllo o per una diagnosi, conoscendo la superficialità e la faciloneria di alcuni di loro. I suoi malati erano poveri ed ignoranti; lei lo sapeva bene: alcuni non li avrebbero visitati accuratamente e in fretta gli avrebbero prescritto qualche pillola di vitamina che non avrebbe loro giovato. Essa controllava le prescrizioni e i medicinali, e se qualcuno avesse ricevuto solo palliativi, avrebbe protestato con il dottore. Presto i medici si misero all'erta e quando sapevano che si trattava di un "malato della madre" lo visitavano accuratamente altrimenti lei si sarebbe fatta sentire.
Il suo lavoro con i malati e i poveri fu ben presto riconosciuto e rispettato da medici, infermieri e amministratori».
E la buona "Vespa" verde era il suo cavallo di battaglia: fare dieci chilometri per arrivare all' ospedale, dopo essere arrivati con il carretto dai villaggi lontani, non era facile per malati malmessi e deboli.
P. Luigi Pinos in un suo scritto la ricorda così: «Dio solo sa quanti malati ha scarrozzato sul sedile posteriore del suo cavallo di ferro! Ormai, quando arrivava agli uffici della città, gli impiegati sapevano già che non si scappava: orario o non orario bisognava accontentarla. I dottori, anche se si erano già tolti il camice e stavano per andare a casa, nel vederla arrivare trafelata, si rassegnavano».
Ancor oggi molte volte i malati sono scheletri ambulanti che si trascinano a stento e che trovano nelle suore che li accompagnano il loro sostegno e il loro conforto; se andassero da soli al policlinico i dottori non li guarderebbero neppure, infatti la maggioranza di loro sono tribali e in pochi, e con difficoltà, parlano il bengalese; molti non lo conoscono affatto. Le suore si fanno portavoce per loro e implorano per loro perché vengano visitati e ricoverati, se c'è bisogno.
Una volta ricoverati, tutti i giorni una suora o un collaboratore va a visi tarli per supplire a tutti i loro bisogni; le spese da sostenere sono elevate, specialmente se vengono operati, perché all' ospedale somministrano solo i medicinali più comuni. In certi periodi dell' anno ci sono anche una quarantina di malati da visitare, senza contare quelli che sono al sanatorio, che non sono mai meno di una ventina.
«Alla fine però - prosegue p. Pinos - suor Gallina scoprì che anche il sistema della Vespa non era conveniente: le pratiche per l'ammissione dei degenti richiedevano tempo e la Vespa non sembrava abbastanza veloce. Così Sul, Silvia si mise alla ricerca di un terreno, e, grazie all'intervento della Caritas, lo trovò lungo la ferrovia, alla periferia di Rajshahi, vi fece costruire una tettoia di lamiera che chiamò "Rifugio per i malati".
Tranne i casi di emergenza, infatti, gli ammalati per essere ammessi all'ospedale devono essere sottoposti ad esami preliminari come malati esterni e alla fine possono essere ricoverati. Durante questo periodo di attesa la gente povera non ha un posto dove stare, spesso passa diverse notti sulla strada, aspettando di essere ricoverata. Tanti - tornano a casa senza essere stati nemmeno visitati. Vista questa amara realtà, la compassione ha spinto suor Silvia a provvedere a una temporanea accoglienza dei malati provenienti dai villaggi. Per prima cosa aiutavano i malati a lavarsi, li rivestivano con abiti puliti e così li potevano presentare meglio ai medici. Poi li assistevano con cibo, medicinali e altri aiuti, soprattutto per chi non poteva affrontare le spese necessarie (gli ammalati vengono al centro e vi rimangono per tutto il tempo in cui sono sottoposti alla terapia o fino a quando vengono ammessi all' ospedale). Infine davano agli ammalati, mentre stavano al Centro, un'educazione sanitaria minima (igiene e cura dei bimbi per prevenire le malattie infettive).
Suor Gallina scrive: «Si pensò così di costruire almeno una capanna di fango, ma, ritenuta non opportuna per !'igiene e per le esigenze di disinfezione, si costruì un dispensario, un cucinino e due stanzette. Nella stanza dove si mangiava, si dormiva, si ricevevano visite, tutte le mattine lo stesso direttore della Caritas, p. Faustino Cescato che aveva appoggiato e sostenuto il progetto - celebrava la santa Messa.
Fu proprio come il granello di senape della parabola evangelica.
Quando nel 1980 si è iniziato così il Sick Shelter non avremmo mai pensato che quattro ampi tavolacci di legno, una semplice stuoia e un cuscino, dopo pochi anni si sarebbero trasformati in 60 posti letto con materasso, lenzuola e in più un nuovo centro con 46 posti letto per gli ammalati di tubercolosi».
Infatti, in seguito il progetto è stato molto ampliato e oltre al Sick Shelter residenziale di Rajshahi con 60 posti letto, sempre strapieno, è stato istituito un nuovo centro per la TBC con 50 posti letto e tre sottocentri dove c'è la possibilità di curare 600 ammalati a domicilio con controlli e terapia. In questo lavoro sono aiutati da personale paramedico locale ben preparato.
L'apertura della sezione per la cura della tubercolosi, avvenne il 1990 grazie all'interessamento di padre Piero Parolari del Pime, medico e missionario, che spiega: «Questi malati vengono curati come minimo per sei mesi con adeguata terapia; fino a quando possono ritornare alle loro capanne in discrete condizioni. Molti sono seguiti dai sottocentri e altri, un buon numero, non sono mai meno di una trentina, vengono ricoverati al sanatorio governativo dove noi dobbiamo provvedere a rendere più sostanzioso il cibo e a far fronte ad eventuali altre spese. Il costo dei medicinali è alto e i malati di TBC, oltre alle medicine, abbisognano di un cibo particolare.
La tubercolosi è una malattia molto diffusa in Bangladesh. Colpisce l'1 % della popolazione (quindi circa un milione di persone all'anno, metà delle quali infettive), per questo si è vista l'urgenza di iniziare questo nuovo centro. Qui a Rajshahi ci sono 40 posti letto dove vengono accolti i malati, viene diagnosticata la malattia e poi vengono mandati al TBC Hospital. Lì danno la cura poi tornano al centro, dove vengono seguiti fino a guarigione raggiunta, spesso per mesi e mesi con terapie altamente costose, tanti casi vengono seguiti anche dopo la guarigione perché necessitano di aiuto per una discreta alimentazione. Molti sono poverissimi, direi miserabili».
Padre Piero Parolari, 54 anni, laureato in medicina nel 1979 ed entrato nel Pime l'anno successivo, partito per il Bangladesh nel 1985, era intenzionato a fare il missionario piuttosto che il medico. Ma ben presto si accorse della necessità di far qualcosa per i malati di tubercolosi, ancor oggi il peggior malanno che colpisce i bengalesi, causato dalla malnutrizione, dal clima caldo umido, dalla sporcizia. Non ci sono specialisti, né alcuna attenzione e prevenzione da parte degli operatori del servizio sanitario nazionale. Non ci furono scusanti: si sentì sempre più interpellato a testimoniare Cristo e il suo amore mediante la sua professione di medico. Formò la sua équipe di infermiere e personale paramedico e fondò il TBC Center accanto al Sick Shelter, lavorando con suor Silvia, a cui è ancor oggi grato per averlo introdotto in questa realtà.
È lui stesso a ricordare: «Ho incontrato per la prima volta suor Silvia al mio arrivo in Bangladesh nel settembre 1985. Ho avuto poi il dono di lavorare con lei quando, nel 1990, aprimmo insieme la "sezione dei tubercolosi", un' estensione del centro di accoglienza per gli ammalati poveri.
Nel riportare al cuore quegli anni passati, lavorando fianco a fianco con questa suora, sento una grande riconoscenza verso il Signore per il dono che lei è stata per la mia vita missionaria: posso anche dire di aver imparato molto da lei. Fin dagli inizi, lavorando assieme, coglievo piano piano i tratti del suo modo di dedicarsi agli ammalati: dinamica, instancabile, determinata. Ciò che mi meravigliava di continuo era come lei riuscisse, dentro alle situazioni umane più difficili e intricate degli ammalati, a trovare sempre una soluzione pratica e fattibile per aiutarli. Con forte senso pratico e grande intuizione del cuore andava al centro del problema e, oltre che risolverlo, convinceva l'ammalato stesso che quella era la soluzione migliore per lui. Gli ammalati poi conoscevano bene il suo cuore. Lo si vedeva quando un ammalato, in preda a nostalgia, scappato dall'ospedale per andare a casa anzitempo, ritornava una seconda volta; suor Silvia lo rimproverava e, a parole, affermava che non lo avrebbe più aiutato. L’ammalato rimaneva lì fermo a sentirsi tutti i rimproveri e non se ne andava, certo che poi la suora lo avrebbe accolto. Il giorno dopo, presso i medici dell'ospedale, faceva opera di convincimento per ricoverarlo di nuovo e riusciva immancabilmente nel suo intento, mettendosi dalla parte dell'ammalato stesso, anzi, scusandolo presso i medici.
Capitava spesso che i malati avessero delle crisi di sconforto, oltre che a causa della malattia, anche per solitudine. Suor Silvia li ascoltava e con il suo unico senso dell'umorismo riusciva in pochi minuti a far tornare il sorriso sui loro volti. E io - sottolinea p. Piero - ho imparato da lei !'importanza del sapere ascoltare. Bisogna far sentire a casa la persona malata. Ciò richiede tempo e disponibilità, ma è questo che fa la differenza: il malato è per noi prima di tutto un fratello da ascoltare e amare nel suo dolore, nella sua sofferenza».
Credo che sia questo il grande aiuto e il sostegno che la presenza e il lavoro dei missionari e delle missionarie offrono qui in campo sanitario. Non solo danno professionalità e competenza, ma anche attenzione per la cura integrale della persona.
Seduta sotto i portici del Centro per malati di tubercolosi, iniziano le danze in mio onore - come si usa in tutto il Bangladesh ogni volta che arriva un ospite straniero mi sento imbarazzata, mentre con tanta disinvoltura bambine e ragazze si muovono suadenti al ritmo della musica. A guardarle, con occhi misti di tristezza e ammirazione, ci sono anche gli altri pazienti del reparto.
Mi colpisce soprattutto Beauty, ragazzina avvolta nel suo splendido sari rosso fiammante, ben truccata e sorridente: insieme alle sue amiche mi offre un profumatissimo giglio bianco. È musulmana, di una famiglia molto povera e proviene da un villaggio della zona di Gulta, vicino a Sirajgonj. Era affetta da tubercolosi polmonare, con molte fistole toraciche (se la TBC non è infatti curata per tempo, il pus della caverne tubercolari si crea uno spazio per spurgare).
Beauty si trova al Centro da quasi un anno e mezzo. «Sai, la cura e la terapia le hanno restituito l'entusiasmo. È una bambina molto affettuosa e sensibile e ha sofferto molto. Quando è arrivata al Centro era molto timorosa sia perché musulmana sia perché particolarmente sofferente. Oltre che amministrarle la terapia, ogni giorno le venivano pulite e disinfettate le ferite. Ora sta bene e presto andrà a casa, è rifiorita, la vita è nuovamente nelle sue manh, dice p. Francesco Rapacioli, anch'egli missionario e medico, che attualmente, da Dinajpur, segue il programma sanitario del centro e si prende cura anche del personale, facendo incontri di formazione e aggiornamento, al posto di p. Piero, richiamato temporaneamente per un servizio di formazione in seminario a Roma.
Accanto a lei, organizzatrice di questo spettacolo, suor Agostina, bengalese delle suore di Maria Bambina, insieme a suor Berchmans, la superiora della comunità, indiana, e ad altre tre suore che lavorano al Sick Shelter. Un bel team a servizio dei sofferenti, sulla scia di su or Silvia Gallina.
Uno sguardo furtivo a p. Francesco Rapacioli. Sono fiera di queste persone che "sprecano" il loro tempo e le loro energie migliori a servizio di questi emarginati dalla società. Mi commuovo di fronte a tanta delicatezza.
Arrivo e presenza delle suore in Bangladesh
Fin dal principio p. Albino Parietti, scrivendo in Italia al suo Superiore, aveva parlato della necessità di avere le suore a lavorare con loro in missione, con questa convinzione: "Se volete delle famiglie veramente cristiane, dovete prima far cristiana la donna. Se volete far cristiana la donna, chiamate le suore". Passarono cinque anni prima che si trovasse un Istituto disposto ad accogliere questo invito.
Il 7 febbraio 1860 partono da Lovere, in provincia di Bergamo, cinque suore della Carità, meglio conosciute come suore di Maria Bambina, insieme a p. Enrico Longa, anch'egli destinato in Bangladesh. Arrivano a Calcutta via nave l'Il marzo 1860: sono le prime suore italiane in Bengala. Da subito aprono una scuola-orfanotrofio femminile a Krishnagar.
"Prima le ragazzine dell'orfanotrofio erano la mia disperazione - scrive p. Limana - ora la mia consolazione. Ammiro le suore che hanno tanta pazienza, tanto ardore di lavorare questa vigna molto faticosa. Eppure ci riescono".
Le suore si affiancano ai padri per completare la loro opera di apostolato.
Visitano i villaggi dispersi e si curano del bene fisico, sociale e spirituale delle donne e delle ragazze: catechesi, educazione di base, igiene, economia domestica, aiuto sanitario.
Da allora le suore si sono sempre dimostrate veramente provvidenziali per lo sviluppo della Chiesa locale e la solidarietà ai poveri. Attualmente contano numerosi conventi nelle varie diocesi bengalesi, gestiti quasi tutti da suore locali.
Nel 1953 arrivano a Dinajpur anche le prime tre suore Missionarie dell'Immacolata (popolarmente conosciute come "le suore del Pime"), rispondendo all'invito rivolto a questo nascente Istituto - fondato nel 1936 - da mons. Obert, allora vescovo della diocesi.
Le Missionarie dell'Immacolata in Bangladesh oggi sono una comunità numerosa e variopinta. Le più anziane sono quasi tutte italiane, la "vecchia guardia" che ha dato forma e forza alla loro presenza qui, e che ancora porta il peso delle responsabilità più gravose nella comunità come nel servizio missionario. Le più giovani sono quasi tutte bengalesi: alcune studiano, altre lavorano nelle missioni. Ma ci sono anche sr. Eli, brasiliana dell'Amazzonia, e alcune italiane arrivate recentemente; con loro il passaggio da una comunità tutta italiana a una comunità internazionale avviene gradualmente, ed è più facile integrarsi, condividere il carisma.
Dieci suore impegnate direttamente nell'annuncio e nella pastorale, due ospedali per i malati di lebbra, quattro dispensari medici, tre ostelli con centinaia di ragazze, tre centri di cucito, sei scuole... questa è la lista degli impegni delle Missionarie dell'Immacolata in Bangladesh, e non importa se le opere sono dell'Istituto o della diocesi. Al tutto si aggiungono due case di formazione per le giovani che entrano.
Ci sono pure le bengalesi che... non ci sono, perché si trovano in missione fuori: Oceania, Africa... Specialmente a loro tocca tener vivo lo spirito di un Istituto che è nato per i non cristiani e per andare ovunque, anche oltre i confini del proprio Paese.
Ed è sempre mons. Obert a fondare nel 1951 una Congregazione diocesana, le suore catechiste del Cuore Immacolato di Maria (C. I. c., chiamate in bengalese suore Shanti Rani. "Regina della Pace" dal nome del primo loro convento-casa madre) aiutato anche da suor Enrichetta Motta delle suore di Maria Bambina.
Cominciarono con cinque novizie che fecero la loro professione religiosa nel 1953. Gli inizi furono molto umili, non avevano niente di niente. Non avevano una casa propria, non c'era una clausura per il noviziato e vivevano insieme alle ragazze della scuola. Nella loro povertà avevano convertito una parte del dormitorio comune in un luogo separato per il convento, ma le giovani erano piene di fervore e questo le aiutò a superare molte difficoltà.
Il piccolo granello è cresciuto rigoglioso fino a raggiungere attualmente 100 suore con Il conventi su tutto il territorio bengalese, impegnate nell'educazione religiosa e umana delle ragazze e nel servizio sanitario.
Oggi la Chiesa in Bangladesh è composta da più di seicento suore - di cui due terzi locali - appartenenti a diciotto congregazioni religiose differenti.
Mariagrazia Zambon e p. Franco Cagnasso