Mariagrazia Zambon
PASSIONE
Viaggio fra i missionari del Pime in Bangladesh
PER UN POPOLO

EMI - 2005

1. Vita da pionieri

7. Scuole e case per i tribali

13. A servizio del clero locale

2. Dopo gli anni Cinquanta

8. La Novara Technical School

14. Camera al contrario

3. Martire per amore

9. Le cooperative di credito

15. Pastorale cittadina

4. Ricostruzione umana e spirituale

10. Casa di spiritualità a Bogra

16. La famiglia si allarga

5. Impegno educativo negli ostelli

11. Dialogo come condivisione di vita

17. Sulla via del ritorno

6. Impegno sanitario a Rajshahi

12. Straniero tra gli stranieri

18. Dal Bangladesh alla Costa d'Avorio

 

 

17. SULLA VIA DEL RITORNO

Dall'oblò dell'aereo che mi riporta a casa lancio un ultimo sguardo a questo "cantuccio della vigna del Signore tra i più abbandonati" (come venne definito il Bangladesh dai primi missionari del Pime).
Mi lascio incantare dalla vastità dei campi verdeggianti tra il groviglio di fiumi: un intreccio di speranza e di tragedia, terra vulnerabile e debole ma con una gigantesca forza interiore che aiuta la gente a ricominciare sempre da capo, nonostante pericoli, difficoltà, problemi inimmaginabili, lavoro massacrante.
Ripenso ai diversi missionari che ho incontrato e che qui stanno spendendo la loro vita: tutti, chi in un modo chi in un altro, con un fiume di parole o mostrando mi semplicemente il proprio operato, si sono raccontati lasciandomi intuire qualcosa della loro vita, dei loro pensieri, del loro cuore. E io ho raccolto frammenti delle loro esistenze.
Chi ha ideato un ostello modello, chi una fattoria esemplare, chi si è messo a progettare cattedrali e santuari, chi ha costruito - oltre la chiesa - piccole abitazioni piùasciutte e sicure. Chi non ha costruito proprio nulla, ma si è messo a condividere. Tutti si arrangiano in mille modi per dare sollievo alle persone, nel corpo e nello spirito, nei villaggi e nelle città, nei dispensari e nelle scuole, nei seminari e nei centri di spiritualità.
Li ringrazio tutti, per il loro esempio, la loro tenacia, la loro disponibilità, nella consapevolezza che non potrò scrivere su tutti. E di questo mi rammarico. Perché tutti avrebbero qualcosa di prezioso e di utile da raccontare, così come è stato per me.
Come una carrellata scorrono davanti ai miei occhi i loro volti, le loro storie, la loro calda, semplice - a volte un po' spiccia, ma pur sempre cordiale e sincera - accoglienza, che lascia trasparire quel desiderio di andare subito al nocciolo, senza troppi fronzoli, senza troppi complimenti. Ed è così che da sempre ho conosciuto i membri del Pime: non troppe smancerie, tenaci, cocciuti e caparbi nei loro obiettivi ma dal cuore grande e appassionato.
Uomini incarnati nel tempo e nella storia, non santi eterei da altare.
Ognuno con il proprio pallino e le proprie stravaganze, ma uniti da un'unica passione: l'amore per Dio e per la gente, soprattutto se povera, emarginata, dimenticata o sfruttata dai ricchi e dai benpensanti.
E io, che mi trovo ad abitare in terra di Turchia, non stento ad immaginare e a condividere i loro desideri, le loro passioni, i loro fallimenti e le loro fatiche.
Certo, non ci sono più gli ostacoli di una volta: l'isolamento, la difficoltà di comunicazioni e di spostamenti, l'incomprensione linguistica, l'inesistenza di comunità cristiane, di comodità, di cure mediche; ma le sfide sono sempre quelle. Come parlare di Gesù crocifisso, morto e risorto, come essere lievito nella pasta, come far incontrare Dio e le persone, come saper vedere e valorizzare l'opera dello Spirito Santo che agisce ovunque e in chiunque, come far emergere la dignità dei Figli di Dio, in un mondo alle prese con la sopravvivenza, la corruzione, l'arroganza, la violenza.
E poi sfide nuove: come mettersi da parte ma nello stesso tempo accompagnare e sostenere con discrezione e vicinanza la Chiesa locale, ancora molto giovane, che comincia a camminare da sola; come aprirsi a nuove attività per incontrare il diverso, il lontano e annunciare il Dio di Gesù.
Come rapportarsi con la gente della città, la gente colta, la gente - la maggior parte - che ancora non conosce il Vangelo.
La missione in Bangladesh, dunque, dopo centocinquant'anni, continua.
L'aereo ormai è in alta quota. Mentre il grande schermo in cabina manda immagini surreali di un tipico film
americano - villa con piscina, biondona accattivante, bellone abbronzato - e mi risucchia lontano verso valori artificiali e bisogni indotti, le case laggiù sono impercettibili, piccoli agglomerati in un'immensità verde. Anche quel brulicare frenetico di 140 milioni di bengalesi si fa invisibile, puntini che perdono consistenza. Svaniti di colpo ai miei occhi, quasi non fossero mai esistiti. Basta un istante per dimenticarli, nuovamente immersa nella mia esistenza, nelle mie preoccupazioni. Ma non è così agli occhi di Dio. E dei suoi discepoli che, ascoltandolo, sono venuti fin quaggiù a prendersi cura - appassionandosi - proprio di questo popolo.
Grazie a tutti loro.
Grazie perché mi ricordano che la vita non è solo arrivismo e ricerca del benessere personale.
"Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza", scrive Isaia.
Piedi forti ed energici, piedi stanchi e affaticati, piedi giovani e scattanti, piedi lenti e gonfi, piedi che camminano e che pedalano, che inciampano e saltellano, tentennano e vanno spediti, piedi in movimento sotto il sole e sotto la pioggia.
Grazie perché da centocinquant'anni ci sono piedi che camminano lungo i sentieri - fangosi o polverosi che siano - della vita.