LA CONFERENZA DI ANNAPOLIS SUL MEDIO ORIENTE
E se provassimo una volta
a pensare positivo?
Chi saprà "recuperare" Gaza,
potrà dire la parola decisiva sulle prospettive di pace e guerra.
Fulvio Scaglione
("Avvenire", 29/11/’07)
La "Conferenza sul Medio Oriente" di Annapolis: e se per una volta provassimo a pensare positivo? Certo, per farlo occorre uno sforzo della volontà. Bisogna mettere da parte sessant’anni di guerre fatte e occasioni mancate, e non è poco.
Convincersi che le crisi in atto, dall’Iraq all’Iran al Libano, volgeranno in tempi ragionevoli verso il meglio. Far scivolare sotto il tappeto il fatto che – finite le cerimonie alla "Casa Bianca" e scattata la solita foto con le strette di mano – le trattative procederanno, gli accordi saranno cercati e trovati e la strada verso la pace sarà percorsa.
Anche quando l’attuale presidente, George Bush, sarà ormai tranquillo nel suo "ranch" in Texas e chi oggi ha preso certo impegni (un "Trattato" entro il 2008) sarà magari tentato di giocare di sponda con nuovi interlocutori. La vertigine del pessimismo, insomma, è forte. È però anche possibile, senza dover indossare "occhiali rosa", trovare ragionevoli appigli per sperare che qualcosa, sul fronte dell’eterno conflitto tra Israele e i palestinesi, stia per muoversi.
In primo luogo, e proprio sul fronte del "movimento", gli Stati Uniti, dopo anni di immobilismo, hanno deciso di occuparsi in prima persona del problema. È una novità importante perché, a dispetto del "Quartetto" ("Usa", appunto, più "Onu", Russia e "Ue"), solo la "Casa Bianca" ha davvero il potere di far girare certe ruote, in Israele come nell’"Autorità Palestinese". Qualcuno ha fatto notare che la "Conferenza", con relative promesse di pace, è il modo scelto da Bush per uscire in qualche modo vincitore dalla presidenza e, insieme, per rilanciare le speranze repubblicane nelle elezioni del 2008. Può darsi. Va allora riconosciuto a Bush anche il merito di affrontare certe scommesse con coraggio: sarebbero bastate un paio di assenze di peso per rendere del tutto inutile l’appuntamento di Annapolis e scatenargli contro ulteriori polemiche. E a proposito di assenze e presenze: l’Iran è rimasto completamente isolato, con l’unica compagnia di "Hamas". E l’idea un po’ patetica della "contro-conferenza" rende l’isolamento di Teheran solo più acuto. È giusto così: l’intera regione, ormai, concorda sul diritto di Israele ad esistere e non vi può essere passo avanti prima che cada la pregiudiziale contro lo Stato ebraico. Al contrario, ed è un segno di proficuo pragmatismo, rientra nel gioco diplomatico la Siria. Di Bashir Assad è meglio non fidarsi alla cieca, ha una certa dose di "canagliate" di cui rispondere. Ma ignorare la Siria (o, peggio, umiliarla politicamente e magari militarmente) e intanto cercare la pace nella "Mezzaluna Fertile" era ed è una contraddizione in termini, buona per gli ideologi o per gli strateghi da tavolino. Se persino i generali americani che combattono in Iraq hanno riconosciuto la collaborazione della Siria dopo il calo degli attentati, vuol dire che Damasco è un tassello indispensabile del "puzzle", piaccia o no il suo regime. Il resto sono chiacchiere. Il problema forse più spinoso e urgente, oggi, è quello di "Hamas" e della "Striscia di Gaza". Non si può ignorare una realtà dove un milione e mezzo di persone vive grazie agli aiuti alimentari dell’"Onu", dove 25 neonati su 1.000 non raggiungono l’anno di vita. La divisione tra i palestinesi toglie qualche alibi al governo di Israele ma gli offre la sponda preziosa di Al Fatah e Abu Mazen, diventati di colpo i moderati. La disperazione di Gaza crea invece una sacca di potenziale militanza che l’Iran potrebbe voler sfruttare. Chi saprà recuperare la "Striscia" potrà, con ogni probabilità, dire la parola decisiva sulle prospettive della pace e della guerra.