MISSIONE ALGERIA

RITAGLI    La sfida di suor Rosanna:    ALGERIA
l’Algeria riparte dalle donne

"Missionaria Francescana di Maria",
la religiosa ha speso 23 anni della sua vita a fianco delle genti berbere.
Una delle «sue» ragazze oggi dirige un centro professionale.

Anna Pozzi
("Avvenire", 3/11/’07)

Quando parla di Saida lo fa come una mamma orgogliosa della propria figlia: «Eccola in foto, nel suo abito nuziale. Ma che fatica per arrivare a quel giorno di festa!».
Saida, ma anche Seloua e Mabruka e tutte le altre sono le ragazze «di»
suor Rosanna Bigoni, "Francescana Missionaria di Maria", quelle con cui ha condiviso per 23 anni la sua vita nell’Algeria profonda. È qui, in questa terra di islam, dove la presenza cristiana è ridotta a pochissimi semi sparsi su un territorio immenso, che suor Rosanna ha vissuto tutta la sua esperienza missionaria. Sempre per e con le donne. «Sono partita quando avevo 33 anni, prima sei mesi a Tunisi per imparare un poco di arabo e poi qui in Algeria». Suor Rosanna racconta, sfogliando le sue foto, mentre mischia un poco di arabo e di francese a un italiano che mantiene qualche inflessione della sua terra d’origine, la Val Seriana, in provincia di Bergamo.
«Quando siamo arrivate a Chechar, duecento chilometri a sud di Costantina, ci guardavano con curiosità e sospetto. Donne sole da quelle parti non si erano mai viste. La loro cultura e la loro religione non possono neppure concepirlo. Poi, un po’ alla volta, hanno cominciato a conoscerci a frequentarci, ad aprirci le porte delle loro case. Alla fine non c’era abitazione che non fosse anche casa mia!». Da circa un anno, suor Rosanna si trova ad Algeri, per occuparsi della comunità di
"Notre Dame d’Afrique", che è un po’ la casa madre della "Francescane Missionarie di Maria" che in Algeria hanno altre sei comunità. Ma una buona fetta del suo cuore è rimasta a Chechar, alle porte del deserto, in mezzo alle popolazioni Chauia, berberi seminomadi che continuano a condurre una vita durissima, in una povertà estrema, ma dignitosa.
«Quanta fatica, ma anche che belle soddisfazioni!». Le si illuminano gli occhi, mentre mostra le tovaglie finemente ricamate dalle sue ragazze. Saida è tra le sue «preferite»: «Una pastorella diventata direttrice di una scuola professionale! Nessuno poteva immaginarlo, quando l’abbiamo conosciuta».
A Chechar, il contesto è per molti versi alquanto arcaico, il ruolo delle donne stabilito dalla tradizione e dall’islam, la povertà una catena da cui è difficile liberarsi. E così Saida, prima di nove figli, non va a scuola e a nove anni si occupa già di custodire il gregge del padre. Di tanto in tanto riesce a lasciarlo a qualcun altro e si precipita nel centro che le suore hanno aperto. Vi fanno un po’ di "alfabetizzazione", taglio, cucito, maglieria… Lavori semplici, che permettono alle donne di acquisire un po’ di conoscenze e abilità. E di guadagnare qualche dinaro per mantenere la famiglia.
«Saida era particolarmente intelligente e abile – ricorda suor Rosanna – e ha imparato rapidamente a leggere e a scrivere, così come a ricamare. Al punto che, dopo una formazione di due anni, ha ottenuto un diploma comunale. Poi, spronata da noi suore, ha fatto uno "stage" in città. E intanto, lavorava per mantenere tutti i suoi fratelli, perché il papà se n’era andato e la mamma non aveva un lavoro. Ora dirige una scuola professionale, che è tra le migliori della zona, ha sposato un ragazzo che le vuole bene e sogna di avere dei figli. Nessuno oggi può immaginare che Saida era una pastorella analfabeta!».
Come lei, molte altre ragazze hanno imparato un lavoro, che permette alle loro famiglie di sopravvivere. Suor Rosanna le ha riunite all’interno di un’associazione, che è riuscita a creare in un contesto dove non esisteva niente del genere: «Si chiama "Essalem", pace – spiega la missionaria – ed è un luogo dove le donne possono riunirsi, imparare a leggere e scrivere e seguire una formazione professionale. Parlare di promozione della donna quando sono arrivata a Chechar era una cosa che non si era mai vista. Eppure il governo l’ha riconosciuta subito e l’ha pure sovvenzionata». E pensare che all’inizio tutti le guardavano con sospetto quelle donne straniere e «infedeli». «Molti ci dicevano che dovevamo convertirci all’islam, altrimenti non saremmo andate in paradiso». Poi, però, ricorda con nostalgia Rosanna, «hanno imparato a conoscerci, a rispettarci e anche a volerci bene: la nostra era una vita di relazioni molto semplici, ma autentiche. A un certo punto hanno imparato quand’era l’ora della nostra preghiera e nessuno veniva a disturbarci in quei momenti».
Oggi, anche dopo la partenza di suor Rosanna, una cinquantina di donne continuano a frequentare regolarmente il centro delle suore, mentre altre lavorano a casa e vi portano i loro lavori per essere venduti. Suor Rosanna cerca di «piazzarli» anche sul mercato di Algeri. Nella capitale è tutta un’altra realtà; «girano» molti più soldi, ci sono più stranieri… «È tutto un altro mondo», conferma la religiosa con un pizzico di nostalgia. Eppure anche qui non ha smesso di occuparsi delle «sue» donne. Sia nella capitale, ma soprattutto nel monastero di
Tibhirine, a un centinaio chilometri da Algeri, dove nel 1996 furono rapiti e assassinati sette monaci. Qui, insieme a una suora belga, "anima", una volta alla settimana, un gruppo di ragazze non sposate che realizzano lavori di maglieria, ricamo e squisite marmellate. Anche qui il contesto è molto tradizionale, le ragazze una volta sposate non escono più di casa: e quelle che sono nei laboratori sono tutte velate. Alcune, uscendo si coprono totalmente il volto. Ma dentro c’è una bella atmosfera: si lavora, si scherza, ci si confida. Suor Rosanna sta al centro di questo piccolo universo femminile che grazie alla sua presenza si sta aprendo a orizzonti un poco più ampi.