IN MONTAGNA…

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San Vigilio di Marebbe, in Alto Adige...

ERRI DE LUCA
("Avvenire", 14/6/’09)

Per uno che veniva da vicoli scuri costipati di strilli, il villaggio tra i monti era l’antipodo del mondo. Ho conosciuto lì per la prima volta l’aria aperta, niente tra la fronte e il cielo, la mia prima fotografia è su un prato d’estate sotto i profili delle "Dolomiti". Intorno c’era il colore violento dei boschi di conifere. Il verde di lassù fa da barriera tra la vallata e il nudo delle cime, il verde di lassù è una barricata.
L’albero, come il fuoco, spicca dal basso verso l’alto a contraddire la regola della gravità. L’albero e il fuoco, suo nemico, spingono dal basso e cercano lo spazio in aria, in alto. Per un bambino accartocciato all’ombra, andare in mezzo all’assemblea degli abeti, dei larici, dei "cirmoli" era un’istigazione a crescere alla svelta.
Tra le case del villaggio,
San Vigilio di Marebbe negli "Anni Cinquanta", giravano le mucche accompagnate da ragazzini magri come i miei di Napoli, ma usciti da balconi di gerani ingrassati dal miglior concime, da usci di comignoli fumanti in mezzo ai prati. Erano senza gioco, asserviti al mestiere come i miei, però con la sovranità di chi provvede al suo anziché all’altrui. La campana ingrandiva le ore suonandole ogni quarto.
Valevano di più le ore accompagnate dall’organo di bronzo, davano peso al tempo. Il villaggio stava in una valle chiusa, senza passaggio in altra.
Ci andava solo chi voleva starci, poco o molto, e poi tornare indietro.
D’Agosto falciavano i prati, uomini e donne andavano su e giù tra il fienile e il taglio, frusciavano i colpi che abbattevano con suono di respiro secco il metro innanzi a ognuno. I loro gesti spaziosi erano il contrario di quelli stretti e chiusi dentro le botteghe del vicolo. In piazza una fontanella all’ombra sosteneva da sola la conversazione, i pochi in giro passavano scambiandosi un saluto con la mano. Starsene zitti era consegna opposta a quella del mio luogo, però adatta a me che stavo zitto a Napoli, guardato con sospetto, da bisognoso di rianimazione.
Perciò mi consegnarono sopra le ginocchia una chitarra, perché potessi unirmi all’ordine di farsi sentire. Lì nel villaggio ci pensavano le bestie, il torrente e la campana a dare un suono al vento. Le persone tacevano, anche da ubriache sbandavano in silenzio. Mio padre una Domenica d’Agosto incontrando un anziano al mattino che già barcollava lo salutò augurandogli "buongiorno" e quello, per concessione di risposta in lingua forestiera. «E ho ben da tirar sera». Parlavano il "ladino", un vocabolario di parole corte, giuste per la musica. Da bambino avevo l’impressione di capirlo, da adulto no, un’abilità perduta tra le altre buone dell’infanzia.
Lì come altrove poi sono arrivati i tempi dell’"oplà", della frittata rigirata in aria, con la gente di fuori venuta a costruire e possedere case di villeggiatura.
La neve è diventata d’oro, le stalle sono diventate stanze, le mucche macellate. I bambini che le governavano sono diventati maestri di sci e uno di loro, Max, ha aperto un ristorante, il "Tabarel", il posto dove mangio meglio al mondo.