Non è lecito sospendere l'acqua e il cibo
Nello stato vegetativo con la dignità di uomini
Francesco D'Agostino
("Avvenire", 15/9/’07)
Le risposte che la "Congregazione per la Dottrina della Fede" ha dato ai quesiti ad essa rivolti dalla "Conferenza episcopale statunitense" circa l'alimentazione e l'idratazione artificiali di pazienti in stato vegetativo non si segnalano per la loro novità: la stessa "Nota" che li accompagna sottolinea infatti come esse si collochino nella linea di diversi precedenti pronunciamenti della Santa Sede in materia e in modo particolare nella linea di un importante discorso che nel 2004 Giovanni Paolo II pronunciò in occasione di un "Convegno internazionale". Esse sono però particolarmente apprezzabili e benvenute per l'estrema chiarezza e per la fermezza con cui argomentano che è sempre moralmente obbligatorio nutrire e dissetare questi pazienti e che non è mai lecito sospendere alimentazione e idratazione, nemmeno nei casi nei quali vengano somministrate per vie artificiali a malati il cui stato vegetativo sia ritenuto con certezza morale, e da medici competenti, irreversibile. In altre parole, alimentare e idratare pazienti in coma sono mezzi naturali di conservazione della vita e non atti terapeutici; non vanno ritenuti, in linea di principio, una forma di accanimento terapeutico, passibile di legittima sospensione.
È prevedibile che queste risposte susciteranno in lettori frettolosi o prevenuti due possibili critiche. Alcuni diranno che sono troppo secche e non tengono sufficientemente conto dell'estrema varietà e complessità delle situazioni che designiamo con l'espressione "stato vegetativo" e dei trattamenti cui sono sottoposti i malati in coma. In realtà la Congregazione - adottando uno stile molto sintetico nel fornire le sue risposte a domande formulate, peraltro, anch'esse in forma "sinteticissima" - ha intenzionalmente e saggiamente evitato di sprofondare in complesse, interminabili e tutto sommate superflue analisi casistiche. Essa si è limitata a ribadire un principio "bioetico" consolidato, quello per il quale ogni forma di trattamento, di cura e di assistenza a carico di malati terminali o comunque colpiti da gravissime patologie va sempre praticata, nei limiti in cui sia un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita del malato. Questo è il principio: sarà quindi onere dei sanitari dimostrare come in singoli, specifici casi la somministrazione di cibo e acqua non possa essere ritenuta alla stregua di un mezzo ordinario e proporzionato di mantenere in vita il paziente (ad esempio quando il suo corpo si riveli ormai incapace di assimilare le sostanze che gli vengono fornite).
Più sottile, e sgradevole, l'altra critica che probabilmente susciteranno queste risposte della Congregazione. La vita dei malati in stato vegetativo, che con tanta fermezza viene difesa dalla Congregazione, non sarebbe autentica vita umana, bensì solo vita biologica. Ma per l'uomo - si sostiene - la biografia conta più della biologia. La vita del malato che non potrà più riprendere coscienza è appunto una vita vegetativa, priva di dignità e di valore, quindi non più propriamente umana e non meritevole di sostegno, né terapeutico né assistenziale.
È difficile comprendere fino in fondo cosa si nasconda dietro queste asserzioni. Sicuramente un profondo "misconoscimento" dell'identità umana, che è indissolubilmente fisica e spirituale, biologica e biografica. È falso che la vita del comatoso sia solo biologica; la sua terribile malattia è parte costitutiva della sua biografia; parlargli, accarezzarlo, accudirlo, nutrirlo non sono azioni insensate e prive di un "ritorno": ciò che si può apprendere dal prendersi cura di questi pazienti e grazie quindi a essi possiede a volte (anzi, quasi sempre) un valore incalcolabile. Ed è non solo falso, ma pericolosissimo imputare a questi malati la perdita della dignità: mai, in nessun caso, una malattia - nemmeno la più estrema e tragica - può togliere dignità a un uomo, perché, per quanto questo possa apparire paradossale, è proprio per la nostra comune fragilità (e non per la nostra intelligenza o per la nostra forza o per la nostra bellezza) che noi uomini siamo persone e possediamo un nostro proprio e specifico valore, che nessuna macchina - per quanto perfetta e capace di non guastarsi mai - potrà mai possedere.
La pretesa di sopprimere una vita "biologica" nel nome della difesa della dignità della vita "biografica" andrebbe chiamata col proprio nome: è, né più né meno, che una pretesa "eutanasica".