Cristianesimo: la fede di chi agisce
Carlo Cardia
("Avvenire", 1/7/’08)
Nella "Catechesi" del Mercoledì Benedetto XVI si è soffermato sul mistero dell’incarnazione e sulla pienezza della natura divina e umana in Gesù. Colpisce la "sottolineatura" che il Papa ha fatto, ricordando San Massimo Confessore, della fede come lievito di vita, di azione, di rapporto con gli altri, di partecipazione alle loro sofferenze, non come ritiro e solitudine. La vita e la società di oggi, con il chiasso che le caratterizza e il vortice di eventi che sfilano veloci davanti a noi, sembra che si oppongano ad accogliere il dono della fede e il mistero dell’incarnazione.
Invece questa difficoltà testimonia la libertà dell’uomo che può lasciarsi prendere da quel vortice o da quel chiasso ma può leggerli in modo diverso, e governarli, attraverso la fede e cercando l’unione con il mistero divino. Il cristianesimo è la religione di quanti amano il creato come opera divina e vogliono vivere partecipando intensamente alle tante sfaccettature dell’esistenza. È una "doverosità" interiore, più forte di qualunque legge positiva, quella che spinge il cristiano ad aprirsi alle altre culture, agli altri popoli, a cominciare dai più sfortunati o sventurati, perché in ogni persona sono riflesse le tracce divine che la rendono preziosa, meritevole di attenzione. Il cristiano non è "avulso" dalla storia, perché la fede legge la storia come un cammino del cui sviluppo siamo responsabili con le nostre scelte e le nostre azioni. Il mistero dell’incarnazione rafforza la voglia di vivere, di capire, di agire, e la "trasfigura" in un orizzonte nel quale le scelte etiche diventano più chiare, più solide, non "soggiacciono" alla convenienza del momento. C’è una lettura errata della fede, che la interpreta come uno strumento consolatorio per superare le avversità che investono l’uomo. In questa concezione "prometeica" si cela un senso di commiserazione verso il cristianesimo, interpretato come la religione dei deboli, di chi ha bisogno di conforto perché non ha forza per reggere la sofferenza e i limiti della nostra umanità.
L’errore di questa lettura non sta nel ritenere che il cristianesimo conforta l’uomo. Sta nell’ignorare che nella fede il dolore non viene meno, non è meno acuto, ma è "trasfigurato" in una dimensione più alta che parla al cuore, e fa intravedere i limiti stessi della sofferenza. Chi ha fede nell’incarnazione vive come gli altri le sofferenze, anche le più atroci e innaturali.
La fede cristiana non cancella nulla, anzi come fede nel Dio che si è fatto uomo, fa sentire ancora più drammaticamente i limiti mostruosi di una vita che nega se stessa. La fiducia nell’incarnazione, però, opera ad un altro livello. Sorregge l’uomo nel momento in cui può sentirsi perso, suggerisce alla coscienza che quell’evento tragico, anche contro natura, si inserisce in un disegno più alto che chiede adesione spirituale.
Un disegno non visibile con gli occhi terreni, ma che dà certezza interiore, che eleva, senza cancellarlo, il nostro essere uomini fino in fondo.
Dentro questa fede stanno le difficoltà di tutti i giorni e di tutti i tempi, quando l’uomo cade, vacilla, si perde, o smarrisce la speranza. La fede cristiana dà forza nell’agire con gli altri e per gli altri, rende capaci di affrontare la sofferenza ricordando che anche il dolore più grande non ha mai l’ultima parola, perché l’approdo definitivo è un altro, quello della speranza e della "ricomposizione" dell’essere nell’amore divino.