Il fantasma del ritorno al passato
La «macchia» di diciottomila algerini che risultano ancora scomparsi.
Il "Fronte islamico di salvezza" si riaffaccia sulla scena cambiando sigla.
Un piano governativo per un milione di nuove abitazioni,
con larga partecipazione di imprese e lavoratori provenienti dalla Cina.
Da Algeri, Emiliano Bos
("Avvenire", 12/9/’07)
«Non l'ho ancora letto ma dicono tutti che sia un libro interessante», commenta con un filo di voce un avventore del “Milk Bar”. Si sorseggia tè alla menta ai tavolini di metallo della storica caffetteria nel cuore della “Ville Blanche”. Mezzo secolo fa una bomba distrusse il locale durante la «Battaglia di Algeri» contro gli occupanti francesi. Oggi, senza i fotogrammi in bianco e nero di Pontecorvo, a quegli stessi tavolini si discute del nuovo caso editoriale: «La dignità umana». «È uscito da poche settimane ma ne abbiamo già vendute moltissime copie», conferma Abderrahmane Ali Bey, gestore della vicina «Libreria du Tiers Monde», nella centralissima piazza Emir Abdelkader. Il volume - in bella evidenza accanto alla cassa, prezzo di copertina 500 dinari (circa 5 euro) - ripercorre la storia recente dell'Algeria, dal colonialismo alla guerra civile degli Anni Novanta. Con l'obiettivo di «comprendere l'essenza del meccanismo politico che ha portato alla crisi», come scrive il suo autore, l'avvocato Ali Yahia Abdenour, 86 anni, considerato il padre dei diritti umani in Algeria.
Passato e presente s'intrecciano sotto i colpi della cronaca. Mentre gli intellettuali riflettono sugli anni del terrore che sembrano ormai alle spalle, nuovi attentati scuotono l'opinione pubblica. Più di cinquanta vittime a distanza di tre giorni in due attacchi suicidi, l'ultimo sabato scorso. E la rivendicazione di una formazione locale - il “Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento” (Gspc) - che di recente ha cambiato casacca affiliandosi al “network” di Benladen: ora i terroristi si presentano come «Al Qaeda per il Maghreb islamico». Una sfida al presidente Bouteflika, l'uomo scelto dalla “nomenklatura militare” nel 1999 per avviare la complessa e non ancora archiviata riconciliazione nazionale, dopo gli anni bui di un conflitto segnato da massacri di civili da parte dei gruppi armati islamici, ma anche dalla repressione dell'esercito. Il regime di Bouteflika - scrive Abdenour nel suo libro - «attraversa la sua fase finale».
L'“avvocato-attivista” invoca una «transizione pacifica verso un sistema democratico» e chiede conto dei 18.000 algerini ancora «disparus»: «Che cosa sono gli scomparsi? Vivi senza esistenza? Morti senza sepoltura?». C'è chi vuole chiudere il capitolo più oscuro dell'Algeria indipendente. Ma anche chi lo vorrebbe riaprire, come alcuni dirigenti del disciolto “Fronte islamico di salvezza” (Fis), che nelle scorse settimane hanno ipotizzato una ricostituzione del loro movimento politico sotto altra sigla. Dopo la rivolta del “cous-cous” nel 1988, l 'allora nascente “Fis” cavalcò malcontento popolare e disagio sociale imponendosi poi alle elezioni del 1991. I vertici dell'esercito annullarono la vittoria degli islamici (54%) al primo turno. Fu l'inizio della fine per l'Algeria, che pagò un prezzo elevatissimo: 150.000 morti, isolamento internazionale e il marchio di quella guerra civile. “Cerniera” tra Maghreb e Africa, il Paese sembrerebbe però aver metabolizzato la paura del terrorismo. Esclusi dalla politica e dalle istituzioni, i radicali sono stati neutralizzati, anche se restano “drappelli” di irriducibili asserragliati sulle montagne della Cabilia, a est di Algeri. La capitale ha comunque ripreso l'atmosfera di caotico e brulicante porto di mare. Nemmeno i “kamikaze” di aprile ad Algeri (33 morti) e di luglio a Lakhdaria (10 soldati uccisi) hanno modificato le abitudini degli algerini: quest'estate più di dieci milioni hanno affollato le coste mediterranee del Paese. E nella capitale si continua a giocare a domino per strada sotto i portici di Rue Bab Azzoun. Più in là, sulla piazza dei Martiri, giostre per bambini con un trenino multicolore. Le mamme hanno il volto in parte celato sotto il tradizionale “adjar”, piccola maschera di seta bianca merlata in aggiunta al normale velo islamico. Dall'alto incombe la Casbah. Groviglio di viuzze patrimonio dell'“Unesco”, ma le case cadono a pezzi e s'appoggiano a vicenda per non crollare. In uno dei rari spiazzi di questo “labirinto”, ragazzini giocano a calcio su un campetto di cemento che s'affaccia sul mare e domina il porto con le sue gigantesche gru d'acciaio. Una serie di moderne Casbah prendono intanto forma alla periferia della città. Questa volta non per mano degli antichi occupanti ottomani, ma dei contemporanei “conquistatori d'Africa”. Imprese edili del “Celeste Impero” lavorano «24 ore al giorno e di notte i cantieri sono illuminati artificialmente», racconta Ahmed, autista di autobus, passando nei pressi di Ouled Fayet alla periferia occidentale di Algeri. Si vedono enormi palazzoni a strisce verticali. Fanno parte dell'ambizioso piano edilizio del governo: un milione di nuove abitazioni realizzate da una manodopera silenziosa e a basso prezzo. A chi denuncia il «pericolo giallo» nell'economia, le autorità rispondono di aver imposto l'assunzione anche di operai locali.
Il colore principale della “bilancia commerciale” resta il nero: quello del petrolio, che con l'aumento del prezzo del greggio porta oltre 60 miliardi di dollari all'anno nelle casse dello stato. Per la prima volta, nei giorni scorsi, i terroristi hanno minacciato di prendere di mira anche gli impianti petroliferi, oggi “super-protetti” dall'esercito insieme agli impianti per l'estrazione del gas, di cui l'Italia è uno dei maggiori acquirenti. I “blog” dei giovani parlano comunque un'altra lingua: non solo francese e “tamazigh”, idioma della minoranza berbera (20%) che da anni chiede invano un riconoscimento. Ma soprattutto il linguaggio del disagio verso «la mancanza di lavoro a causa di un potere che vuole solo sopravvivere», scrive Mourad. Disaffezione confermata dai numeri: alle ultime legislative ha votato solo un elettore su tre. Harifa, 22 anni, studentessa di ingegneria a Parigi, confessa: «Io non sono tornata per votare». Salpa su un traghetto per Marsiglia, stracarico di algerini che lavorano in Francia. «Però - ammette l'aspirante ingegnere - non posso rinunciare alle vacanze nel mio Paese».