Una parte della produzione agricola finisce sul "fronte" somalo,
dove l’esercito sostiene il governo provvisorio,
un’altra parte potrebbe essere stata "dirottata" all’estero dal governo,
anche per ripagare il debito.
Si "sconta" comunque la "cronica" assenza di "politiche di sviluppo".
Il Paese verso una nuova carestia, ma i "silos" avrebbero dovuto essere pieni.
Secondo attendibili dati "Usa",
la "resa" di grano, mais, miglio e sorgo è stata maggiore dello scorso anno.
Eppure, nei mercati della capitale già scarseggiano.
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Da Addis Abbeba, Giulio Albanese
("Avvenire", 11/5/’08)
Natnael Gebreselassie ha un viso sempre sorridente avvolto da capelli crespi e barba incolta. Lascia comunque trasparire la sua indignazione sulla fame che affligge cronicamente il suo Paese, l’Etiopia. Appartiene ad una famiglia benestante d’etnia "Oromo" costretta nel passato a vivere l’"onta" dell’esilio. Negli anni ’70, durante la "rivoluzione" del colonnello Hailé Mariam Menghistu, meglio conosciuto come il "Negus Rosso", Gebreselassie (il nome è di fantasia per motivi di sicurezza) riuscì "rocambolescamente" a fuggire all’estero, prima in Europa e poi negli Stati Uniti dove, completando gli studi universitari, ottenne una docenza in "Economia dello sviluppo". È tornato in Etiopia da un paio d’anni ritirandosi a vita privata in una località nei pressi del "parco" del massiccio di Bale, situato nel settore sudorientale del Paese. Non è facile descrivere la bellezza di questo immenso "acrocoro" nel cuore del "Corno d’Africa". Dalla "brughiera", con le stupende "lobelie" giganti che sembrano spuntare dal nulla creando uno spettacolo "mozzafiato", si scende a valle verso i campi di grano e orzo. «La scorsa stagione il raccolto è stato molto abbondante nella zona di Bale – spiega Gebreselassie – , al punto che l’estensione delle rigogliose piantagioni si perdeva a vista d’occhio». Ora però, curiosamente e drammaticamente, in Etiopia è scattata l’"allerta" per un’imminente "carestia". Che fine abbia fatto quella "messe" copiosa è un mistero sul quale ci s’interroga. «La nostra nazione – dice Gebreselassie – è impegnata militarmente in Somalia in difesa del "governo di transizione": sicuramente parte del grano di Bale potrebbe essere stato utilizzato per sfamare i nostri soldati, ma non è da escludere che sia anche finito all’estero. Inoltre, c’è da considerare che, a parte le grandi aziende agricole governative, la produzione dei piccoli agricoltori è rivolta innanzitutto a soddisfare il loro fabbisogno familiare e quello locale». Nella conversazione s’inserisce Paulos Tadesse (anche in questo caso non è il vero nome), cugino di Gebreselassie, "agronomo" di professione, anch’egli reduce dalla "diaspora" etiopica negli Stati Uniti. Afferma che in Africa si levano da tempo le voci di coloro che criticano le scelte in politica agricola ed economica imposte dagli "organismi economici internazionali", come la "Banca mondiale" e il "Fondo monetario internazionale". «Per ripagare il debito estero – spiega – si fa di tutto da queste parti: si "tagliano" i fondi per la sanità, e l’istruzione e addirittura si arriva ad utilizzare i proventi derivati dalla produzione agricola». «Rimane il fatto – precisa Gebreselassie – che il principale problema, qui in Etiopia, a livello alimentare riguarda lo "stoccaggio" e la distribuzione delle "derrate", soprattutto all’interno del "circuito nazionale"». Stando ai dati pubblicati dal "Foreign Agricultural Service" del "Dipartimento dell’Agricoltura" americano, risulta che le previsioni sul raccolto di grano in Etiopia per il 2007/2008 si attestassero sulle 5,8 milioni di tonnellate, circa 300.000 in più rispetto all’anno precedente, mentre per mais, miglio e sorgo arrivavano a 8,7 milioni di tonnellate. E allora perché nella capitale Addis Abeba l’emergenza "carestia" è data quasi per ineluttabile? Non è da escludere che vi sia stata dispersione delle "derrate" agricole prodotta da una serie di "concause" come quelle fin qui indicate. Resta il fatto che la siccità è tornata in questi mesi facendo sentire il suo effetto sulle piantagioni riproponendo lo "spettro" della fame in un Paese cronicamente afflitto dalla miseria. Dall’Afar al Tigray, dall’Amhara all’Oromiya, da Gambella a Dire Dawa la mancanza di servizi adeguati e l’assenza d’"infrastrutture", unitamente alla "piaga" della disoccupazione, rendono la vita assai dura. Nel passato è capitato che in più di una circostanza fossero in molti a vendere lo "sterco" essiccato come combustibile invece di usarlo come concime, mentre i pochi alberi venivano tagliati per racimolare con la vendita della legna qualche spicciolo, sottraendo "barriere naturali" contro l’erosione del suolo e contribuendo alla "desertificazione". È il "circolo vizioso" della miseria che annienta i fragili fattori sui quali si regge un’economia di "sussistenza". Se da una parte è vero che il rischio "carestia" in Etiopia è scatenato dalla mancanza di piogge, dall’altra è sempre in agguato un’altra minaccia, quella delle alluvioni, soprattutto nei mesi di luglio e agosto, quando le piogge possono causare gravi calamità. Basterebbero alcuni "invasi" per la raccolta delle acque e sistemi di canalizzazione per garantire l’irrigazione dei campi durante le stagioni secche, che in questi ultimi anni si sono sempre fatte più frequenti. In sostanza, vi sono evidenti mancanze nelle politiche di gestione delle risorse, determinate da uno "sfasamento" tra domanda e offerta interna, per cui s’impone la necessità di un "rilancio" dell’economia proprio a partire dalla realizzazione d’"infrastrutture" pianificate secondo "strategie" che tengano conto del reale fabbisogno nazionale. E, se da una parte è innegabile l’interesse del governo verso il settore industriale, la stabilità "macro-economica" appare messa in discussione da fattori imprevisti o difficoltà "congiunturali". «Per ora, nemmeno lo sfruttamento del petrolio da parte dei cinesi nella regione orientale dell’Ogaden potrà risolvere i problemi del Paese», commenta Gebreselassie, precisando che la spesa pubblica è fortemente condizionata dalla presenza dell’esercito etiopico in Somalia e dalla "guerra fredda" con la vicina Eritrea. Per non parlare del "caro petrolio" che acuisce l’indebitamento dello Stato e il conseguente aumento dei generi di prima necessità, tra cui spiccano i cereali. Lo "staff" delle "organizzazioni" nazionali e internazionali parla volentieri a condizione che si mantenga l’anonimato, per timore di possibili "ritorsioni" da parte del governo. Spiegano, in sintesi, che tutti gli aiuti esteri vanno canalizzati attraverso gli uffici governativi preposti e che ogni volta che scoppia una "carestia" parte delle "derrate" viene trattenuta dalle "fitte" maglie di un’assurda burocrazia. Mentre si mette in moto la "macchina umanitaria", si continua a passare da un’emergenza all’altra. Nel frattempo, è triste doverlo scrivere, rimane destinata ad aumentare la "schiera" dei disperati i quali, "malconci" e vestiti di stracci, si accampano davanti a Chiese e moschee chiedendo l’elemosina nel centro di Addis Abeba.