Pro-memoria per il futuro
Missionari rapiti, quale trattamento?
Giulio Albanese
("Avvenire", 13/4/’07)
Lungi da ogni considerazione polemica sulle posizioni politiche di maggioranza e opposizione, in questi giorni il dibattito parlamentare pare fortemente incentrato sui postumi della vicenda che ha avuto come protagonista il nostro collega Daniele Mastrogiacomo sequestrato il mese scorso dai talebani. Una storia davvero penosa per i suoi strascichi, soprattutto in riferimento alla sorte dei due accompagnatori afgani che, com'è noto, hanno perso la vita nel corso di due distinte esecuzioni. Premesso che in simili circostanze è sempre bene stringersi attorno a coloro che sono vittime di simili soprusi in un atteggiamento di indubitabile solidarietà, occorre però riflettere al contempo sulle differenti modalità che, nel corso degli anni, hanno caratterizzato le procedure per la liberazione di nostri connazionali sequestrati nelle zone di guerra. O anche no. In effetti, dall'11 Settembre l'impegno diretto dell'Italia in territorio iracheno, come anche in Afghanistan, ha accresciuto notevolmente l'interesse nazionale e quello del governo di turno rispetto a queste vicende, sia dal punto di vista politico che "mediatico". È chiaro però che quando si tratta di sequestri che coinvolgono i giornalisti, per ragioni legate alla fisiologia della comunicazione, l'enfasi viene elevata all'ennesima potenza al punto tale che le principali testate catapultano sul posto i loro inviati, s'intensificano i servizi, cresce a dismisura il "pathos" collettivo. Così che la copertura dell'evento diventa una sorta di appassionato filo diretto che rende quasi spasmodica l'attesa per la liberazione. Se poi ci si mettono anche i video messaggi, con relativi strazianti appelli, l'ansia dell'opinione pubblica si gonfia al massimo. Altra però è la logica che riguarda esperienze simili vissute dai missionari nelle cosiddette periferie del "villaggio globale". È vero che chi parte per la missione «ad gentes» è pronto a dare la vita per la causa del Vangelo, ma questo non può costituire un alibi per la nostra società che finisce spesso con il relegare in una zona d'ombra queste "sentinelle di Dio", forse scomode proprio per la loro testimonianza. Sta di fatto che finora non solo questi "artigiani di pace" non hanno fatto notizia, ma si trovano comunque "marginalizzati" rispetto a tanti altri loro connazionali che versano nelle stesse precarie condizioni, poco importa che si tratti di giornalisti, improvvidi turisti o chicchessia. Ma quando mai in questi anni i missionari sequestrati nelle remote savane africane hanno potuto godere di quella pressione diplomatica internazionale che invece è stata riservata ad altri in tempi più recenti? Bisognerebbe chiederlo a personaggi del calibro di padre Franco Manganello e padre Vittorio Rosele, ambedue saveriani, ostaggi per un paio di mesi nel 2000 dei sanguinari ribelli sierraleonesi dell'allora "Fronte Unito Rivoluzionario". E a nessuno, nei circoli missionari, è mai venuto in mente, neanche lontanamente, di pagare un riscatto o di chiedere ai governi locali il rilascio di "prigionieri-ribelli" in cambio della liberazione dei religiosi. Fondamentalmente per due ragioni: anzitutto in quanto tali scelte avrebbero svalutato il ruolo e dunque l'autorevolezza delle congregazioni missionarie che risiedono stabilmente in questi paesi e poi perché le autorità locali non avrebbero affatto gradito questo genere di trattative finalizzate al finanziamento o quantomeno alla legittimazione dell'operato degli insorti. E al di là dell'interesse manifestato dall'Unità di Crisi della Farnesina nei confronti dei religiosi, solitamente ai missionari reduci dalla prigionia o addirittura morti ammazzati non vengono riservati voli speciali, funerali di Stato o commissioni d'inchiesta. Una cosa è certa: questi missionari di frontiera, che a volte hanno trattato loro stessi per ottenere la propria liberazione, sono gli eroi nascosti di quella cultura del dialogo che caratterizza oggi il dinamismo dell'evangelizzazione alle frontiere del mondo. Ed è proprio per questa loro istintiva propensione alla parola verace che accettano il rischio nella consapevolezza che la posta in gioco è quella della salvezza di tanta umanità dolente.