MISSIONE AMICIZIA

Costruire la civiltà dell'Amore...

lettera seguente

.

P. Francesco Rapacioli

( da Rajshahi, Bangladesh )

.

Nuova Direzione Regionale Pime Bangladesh: da sinistra, P. Galimberti, P. Gualzetti, P. Rapacioli, P. Cagnasso, P. Prete.

.

    Al centro di accoglienza per ammalati di Rajshahi, Bangladesh, è stato organizzato un programma culturale per la festa di San Pietro e Paolo. Nella sezione tubercolosi, fondata e diretta per dieci anni da padre Piero Parolari del Pime, i malati rimangono per almeno due mesi, per cui si stabilisce un buon rapporto tra di loro e con il personale sanitario. "Onusthan", "programma culturale", è una delle prime parole che si imparano quando si studia la lingua bengalese. Si usa per indicare sia la celebrazione dell'Eucaristia, che ogni celebrazione di tipo culturale: in occasione di un anniversario, delle elezioni politiche o per l'inaugurazione di un nuovo stabile. Sembra che questo popolo ami far festa, celebrare, commemorare.
    Le celebrazioni al centro per ammalati sono estremamente semplici, anche se ognuno da il meglio di sé. C'è chi canta una canzone, chi partecipa a una scenetta, chi recita una poesia. La differenza, qui, consiste nel fatto che coloro che danzano, recitano e camntano sono adulti o bambini ammalati. Alcuni di loro non possono neppure camminare o hanno bisogno di un sostegno per farlo, ma tutti, proprio tutti, sono invitati a partecipare. Ed è questo, in fondo, l'aspetto paradossale. Quando si celebra generalmente si sta bene, si è contenti. Qui la gente invece è ammalata, nella stragrande maggioranza molto povera, e nonostante questo non si sottrae al fare festa, al gioire insieme.
   Un altro aspetto interessante è che queste persone sono molto diverse tra loro. Ci sono bengalesi e tribali. Indu, musulmani, cristiani e animisti. Uomini, donne e bambini. Nei rispettivi villaggi questa gente non ha generalmente alcun contatto, ma qui al centro convive senza grosse tensioni. Le due suore e il personale del centro sono vigili, ma è sempre fonte di stupore e di gratitudine questa pacifica convivenza tra gente così diversa e che ha così poco in comune.
   Viene spontaneo allargare il discorso. Ormai, che lo vogliamo o no, il mondo è sempre più un villaggio globale. E la differenza, pur costituendo una indubbia risorsa, è anche fonte di paura e di sospetto. È più immediato vivere con persone con cui condividiamo il colore della pelle, la fede, i gusti, la lingua e la storia. Più difficile e delicato è invece costruire un rapporto equilibrato e fraterno con chi professa un'altra religione, veste in modo diverso (bizzarro, diciamo noi), si comporta in modo inizialmente incomprensibile.
   Forse è proprio a partire dai poveri, dai deboli, che diventa possibile pensare ad una "civiltà" globale, che non appiattisca le differenze, ma le armonizzi. Una civiltà dell'amore cioè, di cui i papi recenti hanno più volte parlato. Qualcuno dirà che si tratta di un'utopia, di un sogno, ma è un sogno possibile, un'utopia che dipende da ciascuno di noi.
   Siamo disposti ad accogliere una sfida di questa portata? Ad uscire un po' da noi stessi per fare spazio a chi è diverso? Sarà dalle risposte a queste domande elementari che dipenderà il futuro delle civiltà e il destino del pianeta stesso. E se c'è qualcuno che deve fare il primo passo, questi è proprio il più forte. È mettendo al centro i più piccoli, che si può pensare di costruire davvero una civiltà fondata sul diritto e sulla giustizia.