Lettera precedente

Istanbul, 25 novembre 2001

Lettera seguente

.
Ciao carissimi!
Ormai anche qui ad Istanbul l’inverno è arrivato e si fa sentire.
A giornate di sole, che accompagnate dal vento caldo del sud ci fanno godere ancora un po’ di tepore e di cielo blu, si alternano uggiosi giorni di pioggia… Nelle case, all’università e persino sul treno e sugli autobus, comunque, da tempo, i caloriferi sono accesi.
Ieri ci sono stati i primi fiocchi di neve. E per le strade sono apparse nuove bancarelle ambulanti… di calzettoni colorati, pesanti babbucce di lana, "mitici mutandoni del nonno" e persino pancere!
Anch’io, come direbbe qualcuno, ormai sono "atterrata" sul suolo turco e dopo il frastuono dei primi tempi, comincio a rendermi conto su quale terreno sto iniziando a muovere i primi passi.
La città comincia ad avere un volto e la gente acquista ai miei occhi simpatia ed affetto.
E’ proprio vero che è un gran dono non solo la "terra promessa", ma anche coloro che la abitano insieme a me e prima di me.
Siano i bambini lustrascarpe che quotidianamente incontro per la strada o la vecchietta che sul treno, per poche lire, vende delle mandorle zuccherate e, dopo di lei, quasi in processione, ad ogni stazione, chi cerca di smerciare qualche penna, un pacchetto di fazzoletti di carta, una scatola di cerotti, un accendino o tre paia di calze; siano le mie compagne russe, che stanno studiando turco alla ricerca di quel futuro che nella loro patria non hanno trovato o quelle ragazze che al mattino presto, silenziosamente, in ginocchio, nella «nostra» chiesa deserta pregano davanti alla statua della Madonna. E, ancora, Hussein, che da qualche settimana è partito per l’Italia, con il grande desiderio di seguire Cristo sulle orme di san Francesco; oppure Annamaria, la polacca che ha seguito, con le due figlie, il marito italiano qui ad Istanbul per lavoro, isolata ed impaurita da questo mondo a lei così oscuro.
Tanti volti, nomi, storie.
Tutti e ciascuno vorrei abbracciare, consolare, e annunciare che le beatitudini sono per loro.
Proprio come fa l’anziana suor Sofia, la Piccola Sorella che ogni giorno va all’ospizio a lavare con cura quegli anziani abbandonati che nessuno vuole toccare, o come fa p. Adriano, attraverso la Caritas turca, dando una casa ai numerosi profughi irakeni o una scuola ai bambini handicappati emarginati e nascosti dalla società; o ancora come p. Tarsy che passa intere giornate ad ascoltare e dare conforto ai tanti musulmani che si recano in pellegrinaggio a Meryemana (secondo la tradizione, la casa abitata dalla Madonna ad Efeso); oppure come fra Alberto che, con estrema semplicità e familiarità invita a cena - offrendo un po’ di salame e qualche scaglia di parmigiano reggiano - italiani e altri stranieri, cristiani e non, che ad Istanbul lavorano ma si sentono senza radici; o come Betul, ragazza siro-ortodossa che viene a donarmi un sorriso e con tanta pazienza cerca di capire il mio turco così stentato.
Queste e tante altre le persone che, insieme a ciascuno di voi, ora riempiono il mio cuore, queste le persone che presento al Signore e che voglio affidare un po’ anche a voi.
Intanto l’impegno più grosso, per me, continua ad essere quello dello studio del turco.
«Un lavoro invisibile, ma indispensabile e arricchente», mi è stato detto, ed ogni giorno di più mi accorgo che è proprio così.
Non solo perché mi obbliga alla pazienza e alla perseveranza; non solo perché, pur lentissimamente, scopro la bellezza del passaggio dalla condizione di isolamento a quella dell’iniziale comunicazione, suscitando ilarità e stupore negli altri (che iniziano a parlare a fiume in turco, non capendo che oltre alle frasette convenzionali imparate… non comprendo più nulla!!!), ma anche perché, questa fase, così apparentemente sterile, è l’unica, reale porta di accesso per entrare in punta di piedi nel mondo turco.
Ogni parola, ogni frase «conquistata», cioè capita e memorizzata (che fatica!), sento che mi avvicina un po’ di più al modo di essere e di pensare di questa gente (ma perché deve costruire le frasi esattamente al contrario rispetto alla nostra grammatica?), e sembra davvero che non entri solo nel cervello, ma dilati e plasmi anche il cuore…
Qualcuno, tempo addietro, mi chiedeva come la Turchia stava - e sta - vivendo la situazione della guerra in Afganistan.
Di questa realtà in pochi qui sono disposti a parlarne (e forse è la soluzione migliore per non dar credito alla paura e alle strumentalizzazioni dei mass media), anche perché la situazione è davvero tranquilla e non c’è mai stato alcun motivo di temere rappresaglie o attentati.
La gente comune, inoltre, è troppo presa a dover affrontare il tracollo economico già forte da mesi, ma accentuato ancor più in questo periodo per la mancanza di turisti, sui quali si basa gran parte delle entrate.
Giorni addietro alla radio dicevano che dopo l’11 settembre il turismo straniero in Turchia è diminuito drasticamente del 70% (e noi stessi abbiamo constatato che diversi gruppi di pellegrini che dovevano passare anche dalla « nostra » chiesa hanno disdetto o si sono più che dimezzati) e anche il turismo interno è calato del 55%.
Dal 6 novembre è in circolazione una nuova banconota della lira turca, la più grossa, venti milioni… corrispondenti a poco meno di trentamila lire italiane!
Chi è qui da tempo sostiene che realmente si sta vivendo una crisi senza precedenti e, quello che è più drammatico, senza vie d’uscita. Fa una certa impressione vedere i negozianti stare tutto il giorno sulla soglia della propria bottega - piena di ogni ben di Dio,- sperando che i passanti non si limitino solo a scrutare la vetrina da lontano…
Esattamente dieci giorni fa anche qui è cominciato il Ramadan (Ramazan, in turco).
Come sapete la Turchia, ufficialmente stato laico, non permette manifestazioni religiose per le strade e qui non vedrete mai nessun musulmano né cristiano pregare fuori casa o fuori dai luoghi di culto.
Apparentemente, dunque, nulla è cambiato nella vita quotidiana di questa immensa città, ma in realtà la sua faccia è diversa, quasi sia più sobria e riservata.
Mentre ognuno continua la sua normale attività lavorativa, i mille ristorantini distribuiti nelle anguste viuzze o lungo i viali (fuori dalle convenzionali zone turistiche della città), sempre affollatissimi perchè luoghi preferiti per conversare attorno ad un bel piatto fumante di kebap appena tagliato o ad una tazza di thè caldo, durante tutto il giorno sono deserti. Alcuni sono addirittura chiusi, altri ingegnosamente (mi stupisce ogni giorno di più la creatività commerciale di questa popolazione!) si improvvisano cartolai o merciai…
Solo verso le 16.30 – 17.00 si possono ammirare infinite code di uomini e donne davanti alle panetterie, in attesa di comprare il pide, la tipica focaccia da consumare alla sera, quando si può rompere il digiuno, così come, puntuali, annunciano i muezzin, dai loro minareti, che rimarranno illuminati tutta notte, segno che anche chi ha scelto di digiunare può tranquillamente e gioiosamente mangiare.
Anche la televisione, all’ora dell’iftara (il momento in cui si rompe il digiuno), interrompe i suoi programmi e per qualche minuto trasmette, come un’esplosione di gioia, splendide immagini della natura accompagnate da musica e versetti del Corano.
La cosa che mi colpisce di più in tutto questo, comunque, è la mancanza di ostentazione da parte di chi religiosamente si attiene a questo precetto.
Nella mia classe due terzi dei miei compagni sono musulmani, della Siria, della Palestina, dell’Algeria e del Marocco. Giovani, bei ragazzi, intelligenti e svegli, il cui sogno è laurearsi in ingegneria, matematica, medicina. Abituati noi a vederli fumare e precipitarsi al bar durante l’intervallo, ora se ne stanno tranquilli in classe, ad «attendere» la sera, mentre noi continuiamo a consumare bevande e panini. Qualcuno confessa che il digiuno è faticoso, difficile, a volte viene voglia di mandare tutto all’aria, ma con fierezza non cede, per obbedienza ad Allah. E sempre puntuali a scuola, attenti, sorridenti, continuano come se nulla fosse.
Sarà così per un mese intero. Scandendo la loro giornata con la preghiera recitata cinque volte al giorno. Li ammiro, per l’impegno e la serietà.
L’altro giorno parlando mi chiedevano: «E voi, quando e come lo fate?». Ovviamente alludevano a noi cristiani… non vi nascondo che ho cercato di parlar loro della Quaresima, ma nel profondo del mio cuore sono sprofondata. Io non sono capace di gesti così radicali…
Questo è il mio incontro con i musulmani, questo è quanto mi insegnano e mi testimoniano con la loro vita quotidiana. Certo, non saranno tutti così. Ma intanto proprio loro mi parlano di Dio, di un Dio da amare, obbedire e servire, per dare a Lui gloria, anche con segni forti di ascesi, senza troppi fronzoli o scusanti.
In loro tocco con mano che il Regno dei Cieli è vicino. Più vicino di quello che a volte ci immaginiamo. E’ già in mezzo a noi.
«Del tuo nome ho fatto unico cibo alla mia lingua, e del ringraziarti unico titolo al mio canto… L’anima mia sei tu, ho bisogno di te: che m’importa l’universo!», recita un’antica preghiera sufi.
E’ con questo spirito che anch’io mi accingo ad entrare in Avvento.
E attendo la Sua venuta piena, invocandolo in comunione con tutti i miei fratelli, a qualunque fede appartengano.
Grazie a tutti e a ciascuno per la vicinanza che in mille modi continuate a dimostrarmi.
Mariagrazia