GIUSEPPE ANGELINI
LA TESTIMONIANZA
PRIMA DEL "DIALOGO" E OLTRE
CENTRO AMBROSIANO
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5. Il modello decisivo: il discepolo La testimonianza quale parola giudiziale |
5. Il modello decisivo: il discepolo
Torniamo alla considerazione dei testi evangelici, per verificare come essi impongano una correzione del significato di testimonianza così come esso è configurato dall'uso crescente della categoria nella lingua del cattolicesimo contemporaneo. Tale significato appare vicino a quello sugge:rito dal soggettivismo moderno: a procedere dalla concezione pregiudiziale del soggetto come individuo solipsistico, la testimonianza è intesa come la parola che dice quello che tale soggetto vive; la parola in genere sarebbe solo espressione del soggetto, e non invece confessione della verità. Il privilegio accordato alla categoria di testimonianza nella lingua parlata dai cristiani stessi rifletterebbe un analogo privilegio ad essa accordato in genere nel quadro di una cultura egalitaria.
È necessario essere un poco più cauti e considerare un altro lato della questione. Il privilegio della categoria di testimonianza, se da un lato corrisponde all'apologia moderna del soggetto e dei suoi inalienabili diritti, dall'altro riflette una giustificata diffidenza che la coscienza individuale nutre nei confronti della cultura dominante a livello di comunicazione pubblica. Tale cultura appare spiccatamente declamatoria; più precisamente, essa proclama con facilità principi astratti, di scoraggiante genericità; difetta invece di riferimenti alle forme concrete dell'esperienza del singolo, alla sua coscienza, rispettivamente ai modelli di vita ai quali il singolo si affida nella sua pratica di vita. Su questo sfondo prende forma un positivo apprezzamento della parola del singolo, della testimonianza che dice quello che egli personalmente vive. Considerata in tale ottica, la testimonianza del singolo è opposta alle forme soltanto retoriche e declamatorie del discorso pubblico e astratto, e dunque preferita ad esse.
Per rendere più concreta la figura di testimonianza a cui ci riferiamo, pensiamo alle "testimonianze" frequentemente proposte nei convegni ecclesiastici celebrati nei tempi recenti. Accanto a interventi di carattere propriamente teorico, proposti da coloro che sono riconosciuti come cultori professionali del tema affrontato, sono previste spesso "testimonianze"; in tal caso la parola dei testimoni interessa quale documento di un vissuto, e non (subito) come apporto di pensiero. Che anche tali interventi possano effettivamente offrire un positivo contributo alla intelligenza cristiana del reale è indubbio; ma perché tale contributo effettivamente si realizzi occorre che, al di là del testimone, intervenga la parola che chiarisce come quella testimonianza illumini il vangelo. Perché l'esperienza del singolo assuma la fisionomia effettiva di testimonianza non basta certo che susciti ammirazione; occorre invece che rivolga l'attenzione di chi ascolta al vangelo di Gesù. Il senso cristiano dell'idea di testimonianza è decisamente più preciso e impegnativo di quello troppo generico, per il quale come testimonianza è qualificato il resoconto di un' esperienza interessante.
Occorre tuttavia riconoscere che la ricerca di testimoni, intesi nell' accezione ancora generica sopra tratteggiata, riflette un' esigenza vera. La fede esige per sua natura la confessione, e dunque un'attestazione pubblica; essa è invece vissuta oggi troppo spesso come esperienza soltanto interiore, addirittura ineffabile. La verità del vangelo non è accessibile se non attraverso la mediazione di coloro che credono in esso e a testimonianza di tale verità offrono la loro stessa vita. Non a caso Gesù sulla montagna raccomanda, o meglio comanda, ai discepoli di produrre opere buone; solo a tale condizione la fede che egli ha acceso in loro potrà essere una luce non nascosta sotto il moggio, un sale che mantiene il suo sapore: risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (Mt 5,16).
E tuttavia Gesù anche raccomanda ai discepoli di nascondere le loro opere buone; quando essi fanno un' elemosina, la sinistra non deve sapere ciò che fa la destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (cfr. Mt 6,3-4). Quello che Gesù dice espressamente per riferimento all'elemosina, alla preghiera e al digiuno (cfr. Mt 6,218), vale assolutamente per tutte le opere, come è precisato all'inizio di quella sezione del discorso del monte: Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli (Mt 6,1).
Rendere testimonianza dunque, e insieme nascondersi agli occhi degli uomini: le due raccomandazioni paiono a prima vista contraddittorie; si tratta però soltanto di apparenza. La prima raccomandazione deve essere intesa come imperativo di rendere operante la fede nella vita effettiva, di fame dunque il principio di un modo di agire; essa equivale in tal senso alla sentenza posta al culmine del discorso del monte: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, - infatti - entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7, 21). La seconda raccomandazione invece mette in guardia nei confronti di un pericolo preciso, e cioè che l'agire del discepolo cerchi conferma nell' approvazione degli uomini. Le opere buone del cristiano saranno in grado di suscitare la fede di molti, di indurre dunque molti a rendere gloria al Padre dei cieli, soltanto a condizione che esse siano compiute non per rispondere alle loro attese e ottenere così il loro consenso, ma unicamente per corrispondere all' attesa del Padre. In tal senso esse si configureranno come una testimonianza, che non attira su di sé l'occhio di chi vede, ma lo rimanda subito a Colui che abita nel segreto.
Il rischio che la testimonianza cristiana assuma forma pubblicitaria è consistente; nei confronti di tale rischio Gesù mette in molti modi in guardia. Già la considerazione dei segni prodigiosi compiuti da Gesù e della sua pretesa impossibile che essi rimanessero segreti suggeriva con efficacia il suo sospetto nei confronti della pubblicità. Tale sospetto conduce progressivamente Gesù a fuggire le folle e a dedicarsi unicamente ai discepoli seguaci; la cura espressa nei loro confronti mira appunto a questo obiettivo, rendere possibile una testimonianza pubblica del vangelo che non assuma forma pubblicitaria, rimandi invece ciascuno a quella stanza segreta, nella quale soltanto è possibile incontrare il Padre dei cieli.
Nel presente capitolo ci proponiamo di illustrare il cammino attraverso il quale Gesù conduce i discepoli, per iniziarli al compito di una testimonianza non pubblicitaria.
La testimonianza quale parola giudiziale
Merita che si indugi un poco preliminarmente sull' analisi di questa dialettica: necessaria pubblicità delle opere e insieme loro necessaria segretezza.
Quando accade che la confessione della fede assuma incongrua forma pubblicitaria? Anzitutto, quando essa è resa soltanto mediante discorsi; più precisamente, mediante discorsi che si riferiscono subito e solo a principi di carattere generale, che hanno inevitabilmente i tratti dell'ideologia, e anzi dell'utopia, del disegno cioè di una visione idealistica che rimuove il riferimento al reale. Una tale visione del mondo eleva la pretesa di essere apprezzata come vera a prescindere da ogni riferimento alla vita effettiva: a quella di chi parla, e anche di quella di chi ascolta. In particolare, essa ignora la qualità dei vincoli concreti che da sempre legano la vita del testimone alla vita di chi ascolta; quando siano ignorati i vincoli che obiettivamente legano il cristiano a tutti i suoi fratelli, è inevitabile che l'apostolato assuma forma "pubblicitaria".
Tale forma del discorso religioso è propiziata oggi dal contesto sociale effettivo; la netta dominanza che assumono le forme della comunicazione pubblica, anche per riferimento al tema religioso, induce a conferire alla stessa predicazione cristiana forma pubblicitaria. Su questo sfondo, e quasi come reazione al carattere pubblicitario della comunicazione religiosa, s'intende il grande favore di cui godono oggi le figure dei testimoni; quel favore riflette il rifiuto istintivo che la sensibilità diffusa oppone, con fastidio crescente, all' aspetto pubblicitario della predicazione. Un tale profilo ha caratterizzato in maniera spiccata le forme assunte dall' apostolato cattolico nella stagione del conflitto con la cultura liberale. Ma un profilo pubblicitario la parola ecclesiastica assume spesso fino ad oggi, sia pure con tratti diversi. Sollecita nel senso della pubblicità non tanto la preoccupazione polemica nei confronti di una cultura pubblica segnata dal rifiuto della religione, quanto la smania di correggere la marginalità della religione e della Chiesa per rapporto alle forme secolari del confronto pubblico.
La grande insistenza sul carattere personale della testimonianza corrisponde in tal senso alla percezione di una necessità obiettiva: il messaggio cristiano può apparire credibile soltanto a condizione che, a conforto della verità che propone, il singolo offra la propria stessa esperienza, addirittura la propria vita. La confessione della fede coinvolge di necessità il vissuto personale. Solo a condizione che il testimone si "esponga", la sua testimonianza può evitare il sospetto di essere soltanto propaganda.
E tuttavia il riferimento all' esperienza personale certo non basta a realizzare il profilo propriamente cristiano della testimonianza. Perché ciò accada, la parola del testimone deve mostrarsi in grado di rimandare chi ascolta a una verità in qualche modo già presente e operante nella sua stessa esperienza, che tuttavia egli pare rimuovere. In tal senso, realizza effettivamente la figura della testimonianza soltanto la parola che colpisce, e non solo stupisce; trafigge, e non solo seduce, penetra cioè nel cuore stesso di chi ascolta e ne porta alla luce i segreti; rompe dunque quelle noiose regole di correttezza politica della società secolare, che prescrivono di astenersi sempre e in ogni modo dall' entrare nella coscienza di altri. La parola cristiana realizza la forma della testimonianza solo se è "violenta". Tale carattere "violento" è da intendere più precisamente per riferimento al tratto giudiziale della testimonianza. L'uso della categoria nei libri del Nuovo Testamento ricorre prima di tutto, e soprattutto, in contesti giudiziali, come già si diceva.
Il riferimento al giudizio è espressamente presente nei discorsi di missione, mediante i quali Gesù istruisce i discepoli sul loro compito di annunciare il vangelo. Occasione privilegiata per rendere testimonianza è a suo giudizio appunto la persecuzione alla quale i discepoli saranno esposti:
Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro (Mc 13,9).
La persecuzione offrirà occasione privilegiata alla testimonianza, nel senso che alla sua origine sta l'opposizione di governatori e re alla parola di Gesù. Ora una tale opposizione appare come documento appariscente dell'obiettiva contraddizione che sussiste tra la verità del vangelo e la qualità delle certezze poste a fondamento della vita comune. Opporsi a tali certezze offre un' opportunità privilegiata per dire della valenza critica che il vangelo ha per rapporto ai luoghi comuni della sapienza di questo mondo. Proprio in quella occasione ai discepoli sarà data una lingua speciale e ispirata:
Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire (Lc 12, 11-12).
Il processo, al quale i discepoli saranno convocati davanti agli uomini, costituisce in tal senso il momento privilegiato nel quale essi potranno offrire, a conforto della loro parola, la loro stessa vita.
E tuttavia la persecuzione e la corrispondente testimonianza vengono soltanto in seconda battuta. La predicazione del vangelo non può cominciare certo dai tribunali; in quel contesto è solo confermata una parola attestata in prima battuta in altra forma. Si realizza anche nel caso della missione cristiana la legge generale della vita: in prima battuta essa si realizza in maniera spontanea, persuasiva e anche grata; in seconda battuta essa esige una scelta, che appare onerosa; quella scelta ha la figura di un atto di fede. La prima forma della vita dispone le condizioni che rendono possibile e doverosa la scelta, e dunque la seconda navigazione contro vento. Soltanto in questo secondo tempo della vita diventa oggetto di scelta consapevole e libera la verità dischiusa dal primo cammino facile della vita. La fedeltà a quella verità assume appunto la forma della testimonianza; essa trasgredisce le leggi comuni della convivenza e suscita per questo prevedibile resistenza.
La legge generale della scansione della vita in due tempi si realizza anche nella vicenda di Gesù, e quindi nel suo annuncio del vangelo. Tale annuncio assume, in prima battuta, forme tali da determinare il facile e grato consenso; soltanto in un secondo momento emergono gli aspetti ardui che comporta la fede in quel messaggio; soltanto allora la verità del vangelo giunge alla sua piena rivelazione. La medesima legge, che impone la scansione in due tempi, caratterizzerà anche l'annuncio pubblico del vangelo da parte dei discepoli; si realizzerà poi in generale nella vita di ogni credente. E d'altra parte, la vita in genere è possibile sempre e solo a questa condizione, che essa assuma la forma di atto di fede.
Il modello della sequela terrena
Consideriamo dunque la vicenda che i discepoli vivono al seguito di Gesù: essa offre l'illustrazione più precisa del senso che assume la testimonianza cristiana. Ad essa occorre sempre da capo riferirsi per intendere la figura di quella testimonianza; anche in questo senso occorre intendere la qualità apostolica della Chiesa.
L'obbedienza dei discepoli alla chiamata di Gesù appare, in prima battuta, facile e spontanea, come facile e spontanea è in generale la fede di tutti coloro che accolgono fin dal principio il messaggio di Gesù. Questo aspetto facile della sequela ai suoi inizi minaccia d'essere dimenticato nelle letture che della loro vocazione sarà data in tempi successivi; tale lettura subito insiste sugli aspetti del distacco, dunque della laboriosa conversione che la sequela comporterebbe. La prima obbedienza alla chiamata di Gesù è facile, e tuttavia coinvolge i seguaci in una vicenda che certo sfugge alla loro iniziale consapevolezza; obbedendo a quella chiamata essi promettono assai più di quanto sanno. La verità piena di quella loro iniziale fede diventerà manifesta - a loro stessi, e anche agli altri - soltanto in un secondo tempo, quando ai discepoli saràrichiesto di tenere ferma la loro scelta iniziale pur contro l'ostilità di molti, e addirittura di tutti. A fronte di tale prova la loro fede vacillerà; per un momento essa parrà addirittura svanire come una nube del mattino. Il momento della prova è quello della passione del Maestro; essa farà apparire l'inconsistenza delle attese da essi poste nel Maestro. Soltanto poi, dopo l'abbandono e addirittura il rinnegamento del Maestro, si mostreranno finalmente capaci di tenere fede alla loro prima scelta. A tanto li condurrà la manifestazione del Signore risorto; essa dischiuderà ai loro occhi quella verità del loro primo cammino, che prima sfuggiva alla loro consapevolezza. In questo secondo tempo la fede perfetta sarà possibile soltanto a prezzo della confessione del peccato precedente. Soltanto allora, correggendo il precedente scandalo, i discepoli diverranno capaci di una testimonianza sicura davanti a tutti, ferma e insieme lieta.
Rappresentazione concisa ed efficace di questa articolazione in due tempi del cammino dei discepoli al seguito del Maestro offre l'ultimo dialogo tra il Signore risorto e Simon Pietro, come proposto nel vangelo di Giovanni. Gesù chiede a Pietro di correggere il suo triplice rinnegamento; lo fa attraverso la richiesta tre volte ripetuta di una professione di amore, trasparente riferimento al triplice rinnegamento; Pietro risponde in maniera affermativa alla triplice richiesta. A quel punto, quasi a sigillo della nuova alleanza, Gesù gli disse:
In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi» (Gv 21,18-19).
Quando eri più giovane...: Gesù si riferisce al tempo nel quale Pietro era più giovane non solo quanto all'età, ma anche per ciò che si riferisce alla sua fede. In quel tempo Pietro non avvertiva ancora quale laboriosa obbedienza e quale passione comportasse la sua fede; l'amore per Gesù appariva allora ai suoi occhi facile, corrispondente ai suoi modi spontanei di sentire. Ma quando sarai vecchio, invece, si renderà a te manifesto il legame necessario tra amore e passione; allora tu tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste. Le parole sembrano lì per lì riferirsi alla circostanza che il vecchio ha bisogno di essere aiutato anche solo per vestirsi, per compiere in genere tutti i gesti elementari della vita. Di una tale passività ovvia è però subito suggerito il significato cruento: allora altri ti porterà dove tu non vuoi. L'evangelista espressamente precisa che questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: la suprema testimonianza della fede è data mediante la consegna della vita, non mediante il governo di essa. La consegna della vita porta a compimento il senso obiettivo che la fede di Pietro aveva fin dall'inizio; essa significava infatti la consegna della vita nelle mani del Maestro. La necessaria passività della fede, nel momento della sua forma matura, comporta anche un' attività, un libero consenso, in tal senso una scelta, e si tratta anzi della scelta suprema. Allora Gesù gli disse: Seguimi; gli ripeté dunque il comando che gli aveva proposto già all'inizio del cammino. Soltanto nel momento in cui Pietro sale sulla croce diventa perfetta la sua sequela; allora Pietro seguirà Gesù nel cammino supremo, in quel cammino che la prima volta aveva invece interrotto la sua sequela.
La testimonianza perfetta del messaggio evangelico è realizzata soltanto mediante la consegna della propria vita da parte del testimone. Il principio vale per Gesù, e anche per i discepoli. La consegna della propria vita assume forma cruenta nel caso del martire; esso porta alla luce la verità profonda di ogni altra forma di testimonianza. Appunto in questo senso deve intendersi il valore di paradigma che il martirio (la parola greca significa testimonianza) assume per rapporto alla testimonianza cristiana, e più in generale per rapporto alla vita cristiana; la confessione della fede è possibile soltanto nella forma del martirio, non solo per coloro che hanno la missione di predicare il vangelo, ma per tutti i credenti. Per tutti infatti la fede comporta il compito dell' attestazione; e la verità del vangelo di Cristo può essere attestata con univocità soltanto nel contesto di un confronto processuale con il mondo.
In questa luce si comprende anche il fatto che il lessico della testimonianza trovi i suoi impieghi privilegiati in testi di genere letterario apocalittico. La letteratura apocalittica dice infatti la verità di Dio in contesto di persecuzione e nella prospettiva del conflitto escatologico.
Dalla sequela alla imitazione
La necessità per i discepoli di accedere a una ripresa del loro primo cammino al seguito del Maestro è segnalata da Gesù fin dall'inizio. Mi riferisco in particolare alle parole con le quali Gesù li istruisce, dopo averli separati dalla folla. Nel loro primo cammino i discepoli non avvertono subito che la sequela di Gesù li separa dalla gente, dai modi di pensare e di credere comuni ai molti. A misura in cui emerge la distanza di Gesù dalle folle - dai molti che pure in certo modo seguono Gesù con consenso e addirittura con entusiasmo - si manifesta la distanza che separa i discepoli dal loro Maestro, addirittura una tensione che li oppone a lui.
Un primo segno di tale distanza e tensione si manifesta già nel racconto del primo incontro di Gesù con le folle, che secondo Marco si produce nella sinagoga di Cafarnao; esso decreta un grande successo di Gesù presso la folla; riflesso di tale successo è il tentativo della gente di Cafarnao di trattenere Gesù. Il tentativo della gente trova eco in Pietro stesso, che si fa interprete di quel disegno presso Gesù:
Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni (Mc 1,35-39).
Non è registrata la risposta di Simone e degli altri. Come spesso accade, le parole che Gesù rivolge ai discepoli rimangono come sospese nell' aria; secondo ogni verosimiglianza, essi non comprendono, e tuttavia non è detto espressamente. Presumibilmente, essi stessi non dicono: rimandano a un momento successivo la comprensione di quel che al momento appare oscuro. Così accadrà sempre; in particolare, nelle molteplici occasioni in cui, nel quadro della prima predicazione pubblica di Gesù, emerge il consenso dei discepoli ai modi di sentire, desiderare e giudicare delle folle; Gesù li corregge, ma non è registrata la loro reazione. I discepoli sono seguaci, si adeguano in tal senso alle scelte di Gesù, ma senza capirne le ragioni; sono in tal senso simili ai bambini; la loro sequela è solo infantile.
Tornando alla pagina di Cafarnao; il proposito dichiarato da Gesù - Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto! - allude abbastanza chiaramente a questa verità: ciò che egli ha detto e fatto a Cafarnao ha un significato diverso da quello inteso da coloro che pure lo hanno applaudito. Verso la verità di quello che i loro occhi hanno visto e i loro orecchi hanno udito i discepoli sono condotti dalla decisione solitaria di Gesù; il fatto aver visto non basta a costituirli come testimoni; tali essi diventeranno soltanto istruiti dal seguito del loro cammino in compagnia del Maestro.
La distanza tra Gesù e le folle trova la sua espressione più esplicita e diffusa nella scelta che, a un certo momento del suo cammino, Gesù fa di parlare alle folle in parabole. Questa forma indiretta di comunicazione è adottata da Gesù esattamente in risposta alla sostanziale incomprensione del proprio messaggio da parte delle folle. I discepoli non capiscono la scelta di quella lingua criptica da parte di Gesù:
Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4, 10-12).
Anche in questo caso non è detto quale sia stata la reazione dei discepoli alla parole di Gesù.
La contraddizione tra Gesù e i discepoli emerge in maniera più chiara nel momento in cui Gesù comincia a parlare del destino del Figlio dell'uomo, e dunque della sua passione. Il primo annuncio in tal senso è riferito da Marco in coincidenza con la confessione di fede di Cesarea. Quella confessione è sollecitata da Gesù stesso, mediante un'interrogazione esplicita dei discepoli; la forma in cui è posto l'interrogativo prospetta a priori la necessaria separazione dei Dodici dalla gente: Chi dice la gente che io sia? ... E voi chi dite che io sia? (cfr. Mc 8,27-30). In effetti, la risposta di Simon Pietro è diversa da quella della gente; egli confessa l'identità messianica di Gesù. Le sue parole dicono la verità, come mette in evidenza con grande enfasi il passo parallelo di Matteo (Mt 16,1719); e tuttavia ancora una volta Gesù impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno (Mc 8,30). Il motivo del divieto è facile da intuire; Gesù si rende bene conto del fatto che la verità professata a parole dai Dodici non è ancora intesa dalla loro mente.
Subito dopo la confessione di Simon Pietro dunque Gesù cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire. Gesù faceva questo discorso apertamente, ma Simone lo prese in disparte e tentò di dissuaderlo; l'opposizione tra il discorso aperto di Gesù e il discorso in disparte di Simone offre virtualmente una precisa determinazione dei tratti della testimonianza cristiana; solo virtuale è quella determinazione, e tuttavia assai efficace. Il tentativo di dissuasione di Simon Pietro è realizzato in disparte, perché sollecita Gesù stesso a mettersi da parte; la sua esposizione pubblica appare al momento troppo pericolosa, lo condannerebbe alla passione. Ma quando mai potrà giungere il momento in cui l'esposizione pubblica cessi d'essere pericolosa per Gesù? Appare ormai chiaro come, per seguire Gesù, occorre assolvere a questa condizione, rinunciare a difendere la propria vita. Appunto questo messaggio Gesù subito propone in maniera assai esplicita alla folla e insieme ai suoi discepoli: Se qualcuno vuoI venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Mc 8,34). I discepoli sono già venuti dietro di lui, ma lo hanno fatto senza conoscere il senso e il prezzo della loro scelta; soltanto alla luce del destino del Figlio dell'uomo essi potranno venire a capo della loro prima scelta, e soltanto allora essi diverranno capaci di attestare la verità della loro sequela davanti a tutti.
Merita di sottolineare questo fatto: la verità che i discepoli dovranno annunciare a tutti non è diversa da quella da essi professata già a Cesarea; e tuttavia essa diverrà consapevole soltanto a prezzo di una ripresa; quella ripresa, d'altra parte, sarà possibile unicamente davanti a tutti. Così suggerisce espressamente il discorso di missione:
Non li temete dunque, poiché non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all' orecchio predicatelo sui tetti. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna. [...] Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli (Mt 10,26-28.32-33).
La possibilità di confessare la verità del Figlio davanti agli uomini, e insieme la necessità di farlo, si affermano soltanto grazie al fatto che si fa evidente il conflitto tra Gesù e i discepoli; fino a che quel conflitto rimane nascosto, rimane insieme nascosta la verità stessa del vangelo. Sussiste un nesso stretto tra il fatto che la rivelazione della verità del vangelo conosca il suo compimento sulla croce e il fatto che la testimonianza assuma di necessità la forma di martirio.
Testimonianza e agire: la differenza tra agire e fare
L'immagine della testimonianza cristiana proietta una luce nuova sul dramma della vita di noi tutti. Torniamo ancora una volta a considerare il riflesso che gli aspetti della sequela sopra tratteggiati producono per rapporto alla comprensione della condizione umana universale.
Il profilo giudiziale della testimonianza cristiana, e dunque il profilo per cui essa assume la forma di deposizione processuale a favore di Gesù, pare in prima battuta allentare il nesso tra testimonianza e forme dell' agire: la testimonianza sembra prendere la figura di un patire piuttosto che quella di un agire. Tale conclusione appare però precipitosa, e anzi francamente errata. Essa procede dall'incauta identificazione dell'agire con il fare, dunque con il produrre; in tal senso non ci sarebbe agire dove non si vedano risultati tangibili in questo mondo, come accade appunto nel caso del testimone. Ma in realtà la qualità propriamente umana e libera dell' agire non è compresa, quando si definisca l'agire come il potere di dare inizio a un nuovo corso di eventi, che non ha altra causa che la volontà del soggetto. Proprio questa è invece l'idea di libertà che propongono i filosofi moderni.
Kant - per fare un esempio (ma certo si tratta di uno tra i più rappresentativi filosofi della modernità) - dice che libero è quel comportamento che non ha altra causa che la scelta stessa del soggetto. Tale definizione della libertà procede dal confronto dei comportamenti umani con i fatti di natura. Questi attimi sarebbero contrassegnati dal determinismo; tutto ciò che accade in natura trova la sua spiegazione in una causa, e ogni causa opera in modo assolutamente univoco, appunto in maniera deterministica. Per differenza rispetto ai fatti di natura sono intesi i comportamenti liberi; essi hanno certo una consistenza empirica, sono cioè suscettibili di rilevazione sensibile ad opera di tutti; in tal senso essi appartengono al mondo delle cose di natura; e tuttavia non hanno altra causa rispetto alla volontà da cui procedono; quella volontà d'altra parte non è necessitata in un senso solo. I comportamenti liberi costituirebbero dunque uno strappo nel tessuto compatto del determinismo universale. Libero equivarrebbe appunto a non determinato. Una visione della libertà di questo genere è divenuta quella assolutamente prevalente in Occidente, dagli inizi della stagione moderna fino ad oggi. La libertà definita per contrasto rispetto al determinismo riflette l'incauta riduzione dell' agire alla figura del fare, e dunque del produrre effetti.
Tale visione della libertà trova una potente complicità nella scienza, e più precisamente nella tecnica, che della scienza è figlia. Nella stagione moderna, e soprattutto in quella contemporanea, la scienza non è più privilegio di pochi addetti ai lavori, ma diventa ingrediente della cultura di tutti. Essa nutre, in particolare, quell'apologia dell'homo faber, che è appunto uno dei tratti distintivi della cultura moderna. Il progresso dell'uomo sarebbe determinato dal suo crescente potere sui fatti di natura; mediante tale potere l'uomo civile mette la natura tutta al servizio dei propri bisogni. La cultura moderna ha celebrato in molti modi l'apologia del dominio della terra, realizzato appunto grazie alle risorse della scienza e della tecnica. Tale celebrazione dell'homo faber ha conosciuto qualche smagliatura nei tempi più recenti, ma non si è affatto estinta. Gli uomini di pensiero conoscono sempre più chiaramente i limiti del sapere scientifico, e anche le minacce che il potere tecnico comporta; l'uomo della strada invece, e soprattutto il giornalista che dell'uomo della strada è servo, fino ad oggi ripone nelle sempre crescenti risorse della tecnica la propria fiducia in un futuro migliore per la propria vita.
L'apologia dell'homo faber si scontra in maniera frontale con la visione cristiana della vita; questa intende infatti il senso e il valore della vita per riferimento alla sua qualità testimoniale. La vita umana vale per ciò che attesta, molto prima e molto più che per ciò che produce. La vita umana assume in tal senso la figura del martirio, con tutto ciò che una tale affermazione comporta sotto il profilo pratico. Con grande insistenza è raccomandata la pazienza piuttosto che l'agonismo contro la sofferenza e tutte le sue cause. La salvezza dell'uomo non consiste certo nel fatto di essere finalmente liberati dalla sofferenza; quando mai questo potrà accadere? Al rimedio che la medicina moderna trova a molte forme di sofferenza fisica corrisponde la lievitazione di altre forme di sofferenza, meno facili da descrivere; si usa definirle forme di sofferenza psicologica. Esse hanno un rapporto stretto con il non senso, e dunque con lo svanire di quella visione sensata e promettente della vita e del reale tutto, che invece caratterizzava il mondo antico. Il rimedio a questo nuovo genere di sofferenza non può certo essere affidato ai progressi della tecnica.
L'apologia della tecnica diventa in effetti oggi oggetto di diffuso sospetto, quando non addirittura di franca denuncia. Esprimono tale denuncia soprattutto i filosofi. A procedere dall' elaborazione della" scuola di Francoforte", è da molte parti proposta una critica della cosiddetta "ragione strumentale"; essa ha contagiato la retorica diffusa degli intellettuali. Già nella stagione anteriore alla seconda guerra mondiale molti filosofi avevano proposto critiche catastrofiche dell'Occidente, dominato dal pensiero calcolante, dal sapere a proposito del fare piuttosto che dal sapere a proposito del senso; testimone privilegiato in tal senso è Martin Heidegger. Oggi ormai appare evidente a tutti che una civiltà ispirata al principio del primato dell'homo faber conduce a esiti nichilistici. La denuncia del nichilismo dell'Occidente è in effetti abbastanza comune. E tuttavia da questa critica non vengono tratte le conseguenze che invece dovrebbero essere tratte; non è istituita in particolare una precisa e determinata critica degli ideali di conoscenza perseguiti dal sapere scientifico. Tra dominio della tecnica e dominio della scienza infatti sussiste un nesso assai stretto.
La critica che si deve opporre al sapere della scienza, o più precisamente alla sua pretesa d'essere la forma suprema del sapere, è prevedibile: quel sapere nulla sa del senso di tutte le cose. La scienza non si occupa infatti del senso, ma dei fatti. All' origine del suo prodigioso progresso sta proprio questa scelta, sospendere pregiudizialmente tutti gli interrogativi a proposito del senso delle cose, e prima di tutto a proposito del senso dell' agire umano. Per interrogarsi sul senso dell' agire, occorrerebbe riconoscere preliminarmente che l'agire ha un senso, che esso dunque non può essere in alcun modo ridotto alla figura del fare. Il senso dell' agire umano è da intendere come la verità che esso attesta; assai prima e assai più che produrre risultati, l'agire infatti attesta un senso; quel senso decide anche del valore. L'agire non è il mezzo per ottenere altro, per ottenere cioè quei risultati, dei quali la scienza si occupa in maniera esclusiva; esso ha invece un valore in sé, è documento della nostra speranza.
Soltanto riconoscendo il valore dell' agire è possibile anche volere. Vogliamo noi davvero quello che facciamo? Lo vogliamo in maniera incondizionata, oppure lo vogliamo soltanto a condizione che esso serva ad altro, sicché quando poi accada che manchino i risultati attesi ritrattiamo la nostra iniziale volontà? Non è forse vero che la nostra volontà rimane sempre come sospesa, in attesa di vedere le conseguenze dell'agire? In base a quelle conseguenze, al presente ancora incerte, decideremo se valesse o meno la pena di fare quello che abbiamo fatto; soltanto allora apprezzeremo finalmente il valore delle nostre azioni.
Per volere davvero, è necessario accettare il distacco dalle nostre azioni: esse possono produrre frutti soltanto se le affidiamo a Colui che vede nel segreto. Se pretendiamo di misurare il loro valore in base alla corrispondenza o meno delle loro conseguenze alle nostre attese, concluderemo in fretta che nessuna azione vale. Le azioni debbono essere consegnate nelle mani di Dio, come il seme deve essere consegnato alla terra. Gesù nella sua predicazione ricorre spesso alla metafora del seme. Lo fa per dire del mistero del Regno di Dio; ma lo fa insieme per dire della fede, e dunque dell' azione umana. Del Regno infatti non si può dire in altro modo che questo, in maniera drammatica, raccontando una storia; raccontando più precisamente la storia di colui che crede. Appunto questa storia raccontano le molte parabole del seme. Per esempio:
Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).
Meglio si dovrebbe tradurre: accade del regno di Dio come di quell'uomo... Del regno di Dio è possibile dire unicamente ricorrendo a immagini; e l'immagine privilegiata è appunto quella del gesto del seminatore che getta il seme nella terra e attende dal cielo che esso produca frutto. il seminatore si stacca dal seme, così il credente si stacca da tutto quello che fa; il suo distacco non è certo da intendere come abbandono di ogni attesa per il futuro della propria opera; nasce invece dalla scelta di affidare ad altri il compito di portare a compimento la propria opera; ad altri, e soprattutto all' Altro per eccellenza, Dio stesso. Appunto questa figura, la consegna all'Altro della propria vita, realizza la figura della testimonianza.
Poco più di un secolo fa F. Nietzsche propose una polemica aspra contro il cristianesimo e i suoi ideali ascetici. La sua convinzione era quella che il cristianesimo proponesse come ideale di vita la rinuncia alla spontaneità dei desideri. Così egli intendeva e disprezzava il distacco cristiano. L'equivoco nascosto in quella critica deve essere chiarito prendendo in considerazione il senso dell' agire, e dunque il suo carattere testimoniale. La polemica di Nietzsche nasce da una lettura faziosa del distacco predicato da Gesù: esso sarebbe distacco da tutti i desideri spontanei, dunque da quei desideri dai quali soltanto - secondo Nietzsche ma anche secondo noi - è possibile che prenda inizio la vita, e anche l'agire umano. Quel distacco comporterebbe in tal senso una sorta di criminalizzazione del desiderio spontaneo; ma tale criminalizzazione condurrebbe di necessità al nichilismo, all'impossibilità cioè di qualsiasi apprezzamento del reale.
Nella tradizione ascetica gli ideali cristiani sono stati spesso effettivamente descritti come ideali celesti, senza rapporto ai desideri terreni; in tal senso quegli ideali realizzavano la figura di una sorta di "platonismo per il popolo". Gli ideali cristiani sono stati spesso descritti come la voce della ragione che si oppone alle passioni spregevoli della carne. La pratica morale cristiana è stata troppe volte intesa quasi essa fosse pratica ascetica, dunque pratica di rinuncia (22). Anche la recente enciclica di Benedetto XVI sull' amore, la quale pure afferma con grande audacia la pertinenza indubitabile dell' eros (dunque del desiderio spontaneo) alla figura cristiana dell' amore, e così si distacca decisamente dalla lettura del cristianesimo quale ideale ascetico, quando poi si tratta di descrivere il processo che deve condurre da eros ad agape, ricorre subito e solo al lessico della rinuncia (23).
L'interpretazione del cristianesimo in termini ascetici, d'altra parte, non interessa soltanto i discorsi, ma anche le forme della pratica; in molti modi essa manifesta disprezzo nei confronti dei beni sensibili, o - come si esprime D. Bonhoeffer - "dei beni penultimi"; alimenta in tal modo un'immagine della vita cristiana che ha occhi soltanto per gli angoli bui della sofferenza e del peccato, nei quali si troverebbero le ragioni che persuadono a occuparsi di Dio.
La verità del cristianesimo raccomandata dai documenti fonda tori, dai vangeli e da tutti gli scritti del Nuovo Testamento, non è certo questa. Prima ancora, non è questa l'immagine della vita religiosa proposta da Mosè e dai profeti; e la loro testimonianza è assolutamente essenziale per intendere la verità stessa del vangelo di Gesù. Non a caso, la valorizzazione dei beni penultimi si congiunge nelle intenzioni di Bonhoeffer a un rinnovato apprezzamento dell' Antico Testamento. Lo schema concettuale di fondo, al quale occorre riferirsi per comprendere la verità di Dio, non è quello che oppone il cielo alla terra, il materiale allo spirituale, il visibile e all'invisibile; ma quello che oppone semmai il presente al futuro, l'inizio al compimento. Meglio ancora, lo schema è quello che oppone due visioni opposte del presente; la prima visione è quella dell'uomo superbo, che guarda al presente come a test dell'affidabilità di Dio; la seconda visione è quella dell'uomo credente, che riconosce nel presente il tempo della prova della propria libertà. Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, - è scritto a interpretazione di una delle molte mormorazioni che scandiscono il cammino del deserto - a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). L'uomo che non riconosce il proprio presente come tempo in cui alla prova è messo egli stesso, inevitabilmente si erge a giudice dell'opera di Dio; egli troverà certo molti argomenti per diffidare di Lui, ma insieme perderà se stesso.
Anche l'altra immagine che la tradizione cristiana propone della vita buona e perfetta, quello che oppone azione e contemplazione a tutto vantaggio della contemplazione, appare eccepibile: anch' essa infatti ignora la considerazione del profilo testimoniale dell' agire e deve in tal senso essere corretta. Il primato della contemplazione rispetto all' azione, della teoria dunque rispetto alla prassi, è da intendere come il riflesso di una concezione troppo scadente dell' agire, quella che lo intende come mezzo in vista della realizzazione di determinati scopi; appunto questa visione riduttiva suscita la contrapposizione tra azione e contemplazione, o addirittura tra opere e fede, ovviamente a danno delle opere. Quando l'agire umano sia ridotto al rango di semplice mezzo, suscettibile dunque di apprezzamento unicamente per rapporto a un fine, si realizza una forma di apprezzamento dell' agire di carattere utilitaristico: bene sarebbe quello che serve, male quello che nuoce. Serve a che cosa, e nuoce per rapporto a quale fine? n fine dell'agire sarebbe il bene sensibile, dunque un bene di questo mondo.
L'apprezzamento di tale bene è inteso come di necessità legato alla sensazione, e dunque esposto al rischio di obbedire al criterio dell' amore delle creature piuttosto che a quello dell' amore del Creatore. n bene supremo, quello honestum e non solo utile, sarebbe noto soltanto al soggetto che contempla, non al soggetto che agisce.
La tradizione cristiana, che afferma il primato della contemplazione, ampiamente dipende dalla tradizione platonica. n primato della teoria corrisponde al primato del logos, dunque dell'idea o dell'ideale, rispetto a tutto ciò che è sensibile e a tale titolo può essere oggetto di desiderio. I testi del Nuovo Testamento, e quelli della Bibbia tutta, non autorizzano in alcun modo la tesi del primato della contemplazione rispetto all'azione. Non chi dice, infatti, ma chi fa entrerà nel regno dei cieli, afferma espressamente Gesù. Non saremo giudicati in base alla nostra conoscenza di Dio e dei suoi misteri, ma unicamente in base a ciò che avremo fatto nei confronti dei fratelli più piccoli. La perfezione cristiana consiste nell' agape, dunque in una forma di agire, e non nella contemplazione; a tale proposito non può esserci spazio per il dubbio. D'altra parte, la fede stessa è forma di una pratica secondo Mosè, e non forma di una teoria, o di una conoscenza.
E tuttavia le opere buone, che sole seguono quanti muoiono nel Signore oltre la vita presente (cfr. Ap 14,13), non sono opere che possano essere apprezzate per rapporto agli effetti materiali che producono; esse sono invece apprezzate per rapporto alla qualità della fede e della speranza che attestano. Appunto al profilo della testimonianza occorre rivolgere l'attenzione per giudicare della qualità buona o cattiva dell' agire; così occorre fare nel caso dell'agire del cristiano, ma così occorre fare in ogni caso. L'agire dell'uomo in ultima istanza vale perciò che attesta, e non invece per ciò che produce.
NOTE
[22] In un corso residenziale del Centro Studi di Spiritualità della nostra Facoltà, dedicato al tema dell' ascesi, ho cercato di mostrare come questo modello ascetico attraversi tutta la tradizione della dottrina teologica sulla morale, e ho cercato di produrre una critica di tale modello; vedi G. ANGELINI, Gli "ideali ascetici". Pertinenza e limiti della lettura ascetica del cristianesimo, in Ascesi e figura cristiana dell'agire, Glassa, Milano 2005, pp. 53-95.
[23] Per precisare questo rilievo rimando ad un mio saggio recente, G. ANGELINI, Eros e agape. Oltre l'alternativa, Glassa, Milano 2006, in specie alle pp. 32-41.