Nel passato e nel futuro: missionari del P.I.M.E. perché |
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La salvezza delle anime Quando il P.I.M.E. è nato, da tempo sulle carte geografiche non si scriveva più "hic sunt leones" per indicare i luoghi al di là del mondo conosciuto. Si sapeva molto bene che oltre i confini d'Europa c'erano gli Africani, gli "Indios"delle Americhe, i Giapponesi, gli Arabi e così via. Non pochi missionari hanno dato un contributo interessante alla cartografia e agli studi etnografici, ma ai tempi di Mons. Ramazzotti era iniziata e stava estendendosi la corsa verso quei paesi per accaparrarsi terre, città, diritti commerciali, controllo delle vie ti traffico, miniere. Si dice, a volte, che il movimento missionario sia nato sulla scia del movimento colonialista, e ne sia stato sostenuto. È vero che i missionari dell'ottocento per lo più pensavano di appartenere ad una civiltà superiore e che la missione avesse il compito di diffondere la civiltà. Ma era questa la molla che li muoveva, la motivazione che li sosteneva? Penso proprio di no. L'invio missionario è iniziato ben prima del sistema coloniale, e aveva ben altre motivazioni. La bellissima preghiera composta da P. Mazzucconi per la prima partenza dei missionari del P.I.M.E., esprime con chiarezza il loro obiettivo fondamentale: "ho deciso, col tuo aiuto, di adoperarmi a costo di qualunque sacrificio, di qualunque fatica o disagio, anche della vita, per la salvezza di quelle anime, che costano esse pure tutto il sangue della redenzione". La prassi pastorale dell'epoca sotolineava molto il tema della "salvezza delle anime". A sua volta la teologia cattolica, pur non dicendo che tutti quelli che non sono battezzati, per il solo fatto di non esserlo e a prescindere dalla loro reponsabilità, sono "dannati", tuttavia dava per scontata la necessità della fede in Gesù Cristo e dei sacramenti in vista della salvezza, inddirettamente spingendo a dedurre che la salvezza di chi non poteva riceverli fosse ad altissimo rischio. |
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Ecco ciò che interessava i missionari, che li commuoveva fino all'angoscia. Dice infatti quella preghiera: "Commosso, nel più intimo del cuore, dall'indicibile disgrazia di tanti miei fratelli che giacciono ancora sepolti nelle tenebre e nelle ombre della morte, specialmente di quelli che sono stati finora inaccessibili alla bella luce del santo Vangelo...". | |
Con questi sentimenti nel cuore partivano i missionari che ci hanno preceduto. Come sappiamo, molti di loro facevano viaggi incredibili: tre, quattro, fino a cinque mesi di nave, battello sul fiume, carovane a cavallo, tratti a piedi, carrette a mano per arrivare su una sconosciuta isoletta del Pacifico meridionale, o a sperduti villaggi sui monti della Cina, dove la gente non li conosceva e non li voleva, dove mangiavano male e dormivano peggio, dove spesso i briganti rubavano e rapivano, da dove sapevano che non sarebbero mai tornati a casa. Non potevano stare a battezzare nelle loro parrocchie d'origine, nelle valli bergamasche o dell'Irpinia? | |
Oggi ci si stupisce di questa "furia"missionaria, o addirittura si sorride. Si sorride a sentir dire di un missionario che per cinquant'anni ha usato tutto il suo tempo libero per visitare i malati degli ospedali di una grande città asiatica e vedere se qualcuno aveva le condizioni minime indispensabili per essere battezzato, magari all'ultimo istante di vita, e per trovare bimbi ammalati e chiedere ai genitori il permesso di battezzarli (o magari, battezzarli presumendo il permesso...).
Ma facciamo male a sorridere con aria di sufficienza. C'era, in questo comportamento, un valore che sarebbe tragico non capire e perdere. La vita e l'opera di questi missionari era come un grido che diceva: davanti a Dio tutti sono importanti, e io - cristiano - devo amare ciascuno come se fosse l'unica persona al mondo, la più importante. |
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