SACRA BIBBIA  don Claudio Doglio
LE BEATITUDINI

Gesù fa conoscere il Padre. Questa è la buona notizia: "la felicità è possibile"

"Beati i poveri in spirito" Dio Signore onnipotente è dalla nostra parte

"Beati gli afflitti" Il Signore Dio è la nostra consolazione

"Beati i miti " Dio Padre ci lascia in eredità la terra intera

"Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia" Il Signore Dio ci nutre e ci soddisfa

"Beati i misericordiosi" Dio è Padre buono che ci accoglie con tenerezza

"Beati i puri di cuore" L’invisibile Dio si mostra ai suoi amici

"BEATI GLI OPERATORI DI PACE"
IL SIGNORE DIO CI ACCOGLIE NELLA SUA STESSA FAMIGLIA

"Beati i perseguitati per causa della giustizia" Dio stesso è la nostra ricompensa ed è grande

L’altra faccia delle beatitudini I tremendi "guai" nel cap. 23 di Matteo

Anche l’Antico Testamento conosce beatitudini "Beato chi trova in Dio la sua forza!"

Le altre beatitudini del Nuovo Testamento "Beati quelli che, senza aver visto, crederanno"

Le sette beatitudini dell’Apocalisse "Beato chi custodisce queste parole profetiche"

Le beatitudini , i doni dello Spirito Santo e le virtù del cristiano 
La felicità è un dono che Dio ci fa ed è realizzazione delle nostre potenzialità

 

"BEATI GLI OPERATORI DI PACE"
IL SIGNORE DIO CI ACCOGLIE NELLA SUA STESSA FAMIGLIA

 

Introduzione

Lo schema delle beatitudini presenti nel Vangelo di Matteo si sta esaurendo; tuttavia, come ricorderete, ci siamo riproposti di allargare ulteriormente l’orizzonte oltre alle beatitudini conservate dal primo evangelista, per cui avremo altri argomenti da affrontare.

Questa sera consideriamo la settima beatitudine: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio".

Con questo annuncio siamo al settimo elemento, e sapete che negli schemi biblici, amando particolarmente il numero sette, al settimo posto viene sempre qualcosa di importante che rappresenta il vertice, l’obiettivo, il culmine.

La settima beatitudine è l’ultima, nel senso che è l’ultima che presenta un agire. Infatti, l’ottava non è un’ulteriore beatitudine, ma le riprende tutte e sette con una sfumatura di passione, non più di azione, ed è l’atteggiamento di chi è perseguitato a causa della giustizia: se tu vivi queste sette beatitudini, aspettati di patire. Ma, la vedremo la prossima volta: è l’impostazione contraddittoria della beatitudine legata alla sofferenza. Di fatto, l’ottava avrà come annuncio la ripetizione della prima con il riferimento al regno dei cieli, come per i poveri in spirito, per cui si crea una chiusura del cerchio: l’ottava beatitudine rappresenta la conclusione delle sette. Quindi quella che consideriamo oggi rappresenta davvero il vertice delle beatitudini, l’ultima, intesa come il punto più elevato.

Quella precedente ci ha parlato dei puri di cuore ed abbiamo visto che si tratta di un atteggiamento interiore, un modo di essere: la limpidezza, la sincerità dell’atteggiamento, la schiettezza del rapporto, il contrario della doppiezza. Invece quest’ultima beatitudine ci riporta all’agire esterno: gli "operatori di pace" sono persone che agiscono, mentre i puri di cuore sono persone con un certo atteggiamento.

Non è facile capire che cosa intenda l’espressione "operatori di pace", anche perché lo stesso concetto di pace rischia di essere vago. "Fare la pace" può significare mettere d’accordo due persone che sono in conflitto, ma significa anche riconciliarsi con una persona con la quale si era in cattiva relazione. Inoltre, c’è l’altro atteggiamento, quello di chi riceve la pace; istintivamente io mi metto nei panni di chi produce la pace in altri, ma può anche esserci qualcuno che vuole fare la pace con me perché anch’io posso accettare di fare pace con un altro.

In tutto questo si inserisce la figura di Gesù come uno che può turbare la pace; ricordate infatti che c’è un detto strano in cui Gesù domanda: "Credete che sia venuto a portare la pace sulla terra? No! Sono venuto a portare la divisione". Questa espressione un po’ ci turba, o per lo meno ci spiazza. Evidentemente c’è qualcosa di diverso nell’intenzione di Gesù, perché se proclama beati gli operatori di pace e poi dice di non essere venuto a portare la pace, significa forse che egli non è un operatore di pace? Noi abbiamo insistito nei primi incontri sul fatto che le beatitudini rappresentano il volto stesso di Gesù, cioè dicono chi è Gesù, come pensa, come vive, come agisce: adesso ci troviamo in contraddizione?

Forse il problema è proprio quello di capire bene in che senso si parla di pace ed allora torneremo dopo per completare questo ragionamento.

L’espressione in greco adoperata in questo punto dall’evangelista Matteo è un’espressione unica in tutto il Nuovo Testamento, e anche nell’Antico Testamento greco: l’aggettivo eirenopoiòs non si trova mai, rischia di essere una creazione linguistica di Matteo; si trova qualche volta, molto raramente, il verbo corrispondente.

Un altro verbo simile ricorre più volte, però non è il verbo che indica "fare la pace" nel senso di causare, produrre, realizzare la pace, quanto piuttosto il verbo che indica vivere in pace, stare in pace. Questo verbo è utilizzato frequentemente nell’esortazione morale; tante volte, nelle lettere degli apostoli, troviamo l’invito a vivere in pace: "siate in pace gli uni con gli altri" (Mc 9, 50), "vivete in pace con tutti" (Rom 12, 18), "vivete in pace e il Dio della pace sarà con voi " (2 Cor 13,11), "vivete in pace tra voi" (1 Ts 5, 13).

Passare in rassegna tutte queste ricorrenze non ci serve, perché non troviamo nessun elemento particolarmente significativo per chiarirci le idee. Dobbiamo tentare un’altra strada per sviluppare la teologia della pace, dobbiamo cioè chiarirci il significato del concetto di "pace" nel linguaggio biblico.

 

La teologia della pace

Per procedere in questo senso ci è molto utile il termine ebraico shalom, che probabilmente tutti conoscete perché è il saluto comune della tradizione ebraica: è l’espressione che si adopera per il saluto normale, corrispondente a "buon giorno" o "salve" o "ciao", ed è perfettamente parallelo all’arabo salam in quanto entrambi indicano la pace

L’analisi del termine ci offre però un’importante conclusione: mentre nelle nostre lingue il termine "pace" diventa contrapposto a "guerra" o a "conflitto" e finisce per essere sinonimo di "quiete" e di "tranquillità" – si usa dire, ad esempio, "lasciami stare in pace, non mi disturbare" – il concetto di shalom non è così, perché le radici, cioè le tre consonanti che formano la radice della parola, indicano la pienezza. In ebraico ogni parola ha un ceppo, una radice formata da tre consonanti, in genere, e questo incontro di consonanti determina un senso, un grande concetto; poi ci sono tutte le varianti, ma l’idea cardine è legata a questa radice. Dunque, la radice di shalom indica la pienezza, il compimento, il completamento, il raggiungimento della perfezione, per cui "pace" per la mentalità semitica non è l’assenza di conflitto, bensì la pienezza di vita, è molto di più della tranquillità, della quiete, dell’assenza di disturbo: "pace" è piena realizzazione dei desideri, delle aspirazioni, delle potenze.

Ecco perché si parla di "pace messianica" dicendo che "il messia realizzerà la pace", non tanto nel senso che eliminerà i conflitti, quanto soprattutto nel senso che porterà a compimento tutte le attese e realizzerà una vita piena: tutto questo assomiglia al concetto di "maturità", di "maturazione". Noi adoperiamo frequentemente nel nostro linguaggio l’espressione "realizzarsi", che diventa il contrario di "fallire": si dice di una persona che è realizzata, mentre di un’altra si dice che è fallita. Proprio a livello di esperienza umana, di esistenza, quello che chiamiamo "realizzazione personale" nella tradizione biblica si chiama shalom: è la pace intesa come la pienezza di vita.

Ma c’è ancora qualcosa di più, perché la vita umana è essenzialmente relazione: dunque, la pienezza di vita implica una maturità positiva di relazione, una capacità di essere in buona relazione con gli altri. La pace è la maturità della persona umana capace di buone relazioni nelle tre dimensioni fondamentali: con se stesso, con gli altri, con Dio. Un inno liturgico della domenica dice che il Signore risorto ha creato la pace: pace fra cielo e terra, pace fra tutti i popoli, pace nei nostri cuori, a sottolineare le tre dimensioni appena dette. Essere in pace significa dunque essere in buona relazione: in pace con se stessi, in pace con gli altri, in pace con Dio. Ma queste buone relazioni sono la pienezza della vita, sono la realtà di una persona realizzata, matura, che sta bene, è quello che chiamiamo benessere. Proviamo a staccare le due parti che compongono questo termine "bene-essere": il benessere non è semplicemente "avere delle cose", secondo il significato che, materializzando il concetto, ci siamo abituati ad attribuirgli quando si parla di "società del benessere" nella quale abbiamo tanti beni di consumo; in realtà, la situazione fondamentale è quella della persona che è bene, che sta bene. Sappiamo che cosa vuol dire stare bene fisicamente, essere in ottima forma, e la cultura, oggi, sta bombardando con l’idea della forma, dell’essere in forma, del mantenere il corpo nella sua forma migliore; però la persona umana, nella sua completezza, considera il corpo, ma non solo. Quindi, essere in forma, in piena forma, essere bene, godere il benessere significa nel linguaggio biblico essere in pace. È qualcosa di più della semplice situazione fisica, perché si può essere sani e non stare bene, non essere contenti, non essere in buona relazione con gli altri, non essere capaci di dialogo, di accettazione, di ascolto, di sopportazione, di aiuto: il benessere è molto più ampio e corrisponde allo shalom.

Che cosa c’entra Gesù Cristo in tutto questo? Il profeta Michea, in un suo oracolo messianico, aveva annunciato "un capo che uscirà da Betlemme, piccola città, quando colei che deve partorire partorirà", - espressione molto vaga per indicare la madre futura di questo messia - e terminava dicendo "ed egli sarà la pace". Questa idea è ripresa da San Paolo nella lettera agli Efesini laddove dice: "egli è la nostra pace" (Ef 2, 14÷16).

Provate allora a riprendere tutte le cose che abbiamo detto prima sulla pienezza, sulla buona relazione, sul benessere complessivo della persona, poi applicatelo a Cristo: dire "Cristo è la nostra pace" potrebbe diventare "Cristo è il nostro benessere", suona già diverso.

Cosa intende dire l’apostolo con questa espressione? Innanzitutto, riprende l’oracolo di Michea e applica all’uomo storico Gesù questo titolo che era stato dato vagamente a "colui che avrebbe regnato".

"Gesù è la nostra pace": non colui che ha realizzato la pace, ma colui che è la pace. Vedete come cambiano le prospettive? Magari siamo nel fine, però credo che sia importante soffermarsi a ragionare un po’ su questo: non soltanto fare la pace come una realtà esterna – Gesù non è intervenuto come un paciere, come uno che ha messo d’accordo due persone che litigavano – egli è personalmente la pace, cioè egli è in persona la pienezza dell’essere, la realizzazione piena delle potenzialità umane, è quello che, in altre parole, noi chiamiamo l’uomo ideale, la perfezione dell’essere umano, il modello, la pienezza di vita, colui che è bene, il benessere in persona. Ma ciò che caratterizza Gesù come "la pace" è la sua capacità di buona relazione con sé, con gli altri, con Dio: egli è la pace perché è in buona relazione con tutti. Non solo, ma, attraverso di lui, è possibile per noi questa buona relazione.

Egli è la nostra pace, non semplicemente la pace in sé, è la nostra pace, egli è colui che produce la nostra pace perché è lui in questa pienezza di essere. Dal momento che egli è così, pienamente realizzato, produce in noi la possibilità di una piena realizzazione: è colui che, essendo in buona relazione con Dio, mette anche noi in buona relazione con Dio. San Paolo chiama questo la "giustificazione", dice che ci ha "giustificati", cioè ci ha fatti diventare amici, mentre eravamo nemici. Egli ha fatto la pace fra cielo e terra, ha riconciliato l’uomo con Dio, ha creato il dialogo; la lettera agli Ebrei dice che egli è il sacerdote, il mediatore perfetto. Ma per fare la pace, per fare il mediatore, bisogna partecipare di entrambe le parti: se io tento di mettere d’accordo due persone che litigano, devo necessariamente godere la stima di entrambi. Se uno dei due non mi crede, non si fida di me o non è in buona relazione con me, io non riesco a farli andare d’accordo. Per poter essere il collegamento, io devo essere collegato ad entrambi. Ancora più evidente può essere l’esempio della lingua: se io faccio il mediatore di lingua, cioè il traduttore, devo sapere bene entrambe le lingue per poter mettere in relazione due persone che parlano lingue diverse; attraverso di me, che parlo entrambe le lingue, i due riescono a capirsi ed a comunicare. Sono un buon mediatore, ma ho bisogno di una condizione per esserlo: devo essere collegato con entrambi.

Allora è facile comprendere come la mediazione fra Dio è l’uomo sia possibile solo da parte di chi è collegato con entrambi; il mediatore fra Dio e l’uomo può farlo solo uno che conosce le due "lingue", o, per dirla in termini teologici, che ha le due nature. Un uomo non può collegare un altro uomo con Dio, la comunicazione avviene nella comunione delle nature. Allora comprendiamo la grandezza di Gesù Cristo: in quanto uomo-Dio è il mediatore nato, è l’incarnazione della pace, proprio nel senso di mediatore, è colui che è nato per creare comunione, è lui il "pacifico". Detto così, però, si rischia di andare fuori strada perché, in italiano, quando si parla di una persona "pacifica" si intende nel senso di "pacioccona", che non fa niente, che è abbastanza tranquillo, un po’ sonnolento, che non alza mai la voce. Anche se nella radice del termine c’è il concetto di "fare", per cui "pacifico" è uno che "fa" pace, di fatto, quando usiamo questo termine, intendiamo semplicemente una persona quieta, che fa poco. Gesù, al contrario, è pacifico in senso attivo: egli è una pace che produce pace, è la persona pienamente realizzata, in buona relazione con Dio e con gli uomini, capace di metterli in buona relazione.

Negli Atti degli Apostoli si adopera un’espressione molto interessante, rara: si dice che "Gesù ha portato il Vangelo della pace". È un’espressione densa, ricchissima. Sostituiamo la parola "Vangelo" con "buona notizia", per cui possiamo dire: "Gesù ha portato la buona notizia della pace". Allora "pace" potrebbe essere il contenuto del Vangelo, cioè il Vangelo "parla di pace" nel senso in cui ho tanto insistito prima: la "buona notizia" portata da Gesù è la buona relazione con Dio, la possibilità di una buona relazione con Dio, non il quieto vivere.

Ecco quindi la differenza con l’altro detto. Quando Gesù dice "Non sono venuto a portare la pace, ma la spada" intende dire "Non sono venuto a portare il quieto vivere", rifiuta l’idea di pace come tranquillità, come atteggiamento ozioso di chi non ha problemi; invece valorizza l’immagine della spada, del combattimento, dell’impegno: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e vorrei che fosse già acceso". È un’immagine vivace, il fuoco è tutt’altro che "pacifico" nel senso quietista: il fuoco è dinamico, è caldo, riscalda e illumina, brucia, trasforma. Una volta avevo provato a studiare davanti al caminetto acceso: è una cosa tremenda, non ci si riesce, perché ti viene sempre la voglia di alzare la testa e guardare, il fuoco parla, disturba, interessa, è, almeno nei miei confronti, un elemento di deconcentrazione massima proprio perché è un elemento dinamico, non crea quiete, fa compagnia.

L’immagine della pace di Gesù è allora quella del fuoco, non quella della nenia: è l’immagine di una pace dinamica, di una relazione che richiede impegno perché il dono della pace si trasforma automaticamente nell’impegno della pace. Ti è stata data questa buona relazione con Dio, ma ti è chiesto l’impegno per essere in buona relazione: bene-essere con Dio.

Possiamo fermarci qui nella riflessione sulla teologia della pace; mi sembra di avere chiarito abbastanza il concetto di "operatore di pace", non tanto nel senso di una persona che fa qualcosa, quanto di una persona che è in buona relazione, per cui "trasmette". Ci sono delle persone capaci di creare armonia intorno a sé, altre invece con la loro sola presenza creano tensione indipendentemente da quello che dicono, perché possono anche dire delle belle parole, ma creano delle tensioni, dei dissapori, delle turbolenze. La questione di base è l’essere: Gesù è in pace, per cui diventa creatore di pace.

 

Essere chiamati "figli di Dio"

Come sempre, sappiamo che l’importante della beatitudine è la seconda parte, cioè l’annuncio "perché essi saranno chiamati figli di Dio". Quindi, il "Vangelo", la "buona notizia" è qui: "saranno chiamati figli di Dio", questa è la buona notizia, questo è il fondamento da cui deriva la beatitudine.

Vediamo ora che cosa significa propriamente l’espressione, senza ripetere alcune cose già dette più volte e che ormai ci sono chiare.

C’è un passivo divino, che possiamo trasformare in forma attiva riconoscendo che è Dio il soggetto: "saranno chiamati" significa "Dio li chiamerà" figli suoi. Ma nel linguaggio biblico "chiamare" corrisponde ad "essere". Noi siamo abituati a distinguere i nomi dalle sostanze, ma nella cultura biblica questa distinzione non è possibile: i nomi sono delle sostanze, sono delle realtà, il nome nuovo dice una qualità nuova, una natura nuova.

In ebraico c’è un termine solo per indicare parola e fatto: il termine davar indica sia la parola sia il fatto, e anche la cosa.

Noi diciamo talvolta, mettendo in contrapposizione i due elementi, "Fatti, non parole!", "Vogliamo dei fatti, siamo stanchi di parole!": un ebreo non saprebbe come tradurre queste frasi, perché ha un termine solo per dire "fatti" e per dire "parole", proprio perché ritiene che le parole siano fatti. In una cultura antica, "dare la parola" è più che sufficiente, non c’è bisogno di nessuna firma, di nessun documento, conta molto di più la parola dello scritto.

Pensate un po’ alla nostra mentalità che ha trasformato il senso anche delle immagini: noi adoperiamo un modo di dire latino, "scripta manent, verba volant", alterandone completamente il significato, come dire che lo scritto resta mentre le parole se ne vanno, quindi è più importante lo scritto perché il documento rimane, mentre invece le parole volano via. Il significato originale è esattamente il contrario: si intende dire che "le parole hanno le ali", mentre gli scritti sono statici, sono degli scogli; gli scritti stanno fermi e non si muovono, invece le parole raggiungono il cielo, attraversano il mondo volando, e va tutto a vantaggio della parola. Ma noi non siamo più una civiltà della parola, o per lo meno della parola parlata, mettiamo tutto per iscritto e se non abbiamo la documentazione scritta non vale niente. Una situazione del genere ci ha portato a disprezzare i nomi: "sono solo nomi", "è solo questione di nomi". Dobbiamo allora fare lo sforzo di entrare in un’altra mentalità.

Allora, "essere chiamati figli di Dio" non è solo questione di nome, un fatto accidentale, superficiale, ma in quel contesto significa "essere profondo"; "essere chiamati figli di Dio" equivale a esserlo veramente: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3, 1).

Dunque, il riferimento è all’adozione filiale, è la grande teologia della figliolanza che sviluppa soprattutto San Paolo: "Ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, padre!" (Gal 4, 6). Siamo stati resi figli, lo abbiamo già detto in tante altre occasioni, però credo che non dobbiamo stancarci di sottolineare questa realtà essenziale della nostra vita cristiana: siamo diventati figli. Non lo siamo di natura, ma lo siamo diventai per grazia: è il Vangelo. Guardate che nel momento in cui noi perdessimo l’idea del dono della figliolanza, seppelliremmo il Vangelo.

La "buona notizia" è la possibilità di diventare "figli di Dio": nel momento in cui noi facessimo di questo un fatto "naturale" o banale la "buona notizia" cesserebbe, il Vangelo non avrebbe più senso e diventerebbe nient’altro che un’interessante antologia di buoni consigli e di belle parole che possono essere presi quando interessano, se interessano, come si vuole, ma senza che abbiano un senso o un fondamento.

La buona notizia della pace è la buona notizia della figliolanza: il Cristo, Figlio di Dio, unico, unigenito Figlio di Dio, è la pace, è colui che ci fa diventare figli, ci mette nella relazione buona dei figli, ci dà la possibilità di chiamare Dio "papà", ci comunica il suo Spirito, la sua intelligenza, il suo modo di pensare, la sua forza, la sua capacità di amare, ci mette in buona relazione con sé e, attraverso di lui, con Dio.

Allora, diventare figli di Dio significa essere in pace con lui, significa essere simili a lui.

Il figlio assomiglia al padre, una delle caratteristiche fondamentali della relazione paternità-figliolanza sta proprio nella somiglianza, e uno dei grandi temi che Gesù affronta parlando di Dio come Padre è l’imitazione: "Perché siate simili al Padre vostro che è nei cieli", "Perché diventiate figli del Padre vostro che è nei cieli, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi".

Gesù invita i discepoli ad imitare il Padre, ad assomigliargli: allora è un processo dinamico, non statico, siamo in divenire. Ricordate quell’espressione così importante del prologo di San Giovanni: "A quanti (…) l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1, 12a). Notate "potere di diventare", non l’idea magica della trasformazione istantanea del rospo in principe, ma il cammino di una vita: il Vangelo è la buona notizia della pace, la possibilità che ci è data di diventare figli di Dio, e diventiamo figli diventando simili a lui: "Un giorno saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è". L’obiettivo della nostra vita è quello di diventare simili a Dio, è il grande ideale che ci muove, che dà senso alla nostra esistenza: diventargli conformi, assumere la sua stessa forma, diventare uguali a lui. Lo saremo un giorno nella pienezza della gloria, quando saremo con lui, quando lo vedremo faccia a faccia, saremo come lui: quella sarà la pace, cioè la piena realizzazione del nostro essere, siamo stati fatti per essere come lui. Non arrivare ad essere pienamente quello che siamo significa essere frustrati, avere vissuto invano, significa essere falliti. Il contrario del fallimento umano, ovvero la nostra realizzazione, sta proprio nel diventare simili a Dio.

Dunque, riassumendo, Gesù annuncia questa buona notizia: Dio, che è Padre mio, vi prende nella sua famiglia come figli suoi, vi adotta, vi dona la somiglianza con sé; siete fortunati, potete imitarlo come operatori di pace, potete imitare la sua accoglienza, la sua capacità di relazione, il suo atteggiamento pacifico, buono, di buona relazione; potete essere imitatori del Cristo, potete essere in pace con voi stessi, con gli altri, con Dio; potete creare nel mondo armonia perché vi è stata data la grazia di essere figli. Beati voi!